Le macerie a cui si riferisce il titolo di questo libro di Antonio Tricomi (Macerie borghesi. Genealogie letterarie del presente, Rogas, pp. 300, euro 22,70) hanno un senso specifico e preciso; come si legge nel capitolo dedicato a Giorgio Falco, esse sono una cosa ben diversa dalle rovine, testimoni di un passato e dotate di qualche alone romantico: le macerie sono invece un rifiuto, un residuo marcescente che «aspira ad azzerare ogni memoria», e mostrano solo la decomposizione del nostro ordine simbolico, e la devastazione che le forme attuali del capitale impongono al vivente.

GLI AUTORI CONSIDERATI da Tricomi (i più ricorrenti sono Pasolini, Morante, Siti) narrano di un tempo residuale e sospeso, un vuoto che si apre tra un non più e un non ancora, oscillante tra un timore (o un desiderio?) di apocalisse e il tentativo di ostinate, qualche volta disperate utopie. In un montaggio di citazioni e di analisi, Tricomi delinea una sismografia del nostro passato prossimo e del presente che stiamo vivendo: un tempo di ristagno, per usare la parola chiave di Francesco Pecoraro nel suo romanzo Lo stradone, ma anche di fascismo risorgente, malattia ereditaria e ben radicata nell’inconscio del collettivo, di pulsioni distruttive, di edonismo depresso.

L’euforica ideologia neoliberista dell’imprenditore di se stesso, si sta capovolgendo in una sorta di individualismo autistico, in una regressione antropologica che incrina per intero l’ordine simbolico della nostra cultura, lo assale con una radicale «crisi della presenza» (De Martino): in cui lo sforzo dell’individuazione è sorpassato da un «patchwork di forme irrelate», che si ha pure il coraggio di presentare come una liberazione di potenzialità inesplorate, e in realtà si limita a una frantumante perversione.

L’EVAPORAZIONE DEL PADRE e la crisi dell’ordine patriarcale affiorano in modo evidente già nell’opera di Morante; tuttavia, se è vero che investono la superficie dell’esistenza della media e piccola borghesia, non intaccano una legge simbolica più profonda e spietata: l’astrazione inesorabile che governa l’attuale regime di accumulazione del capitale e la sua preformazione degli strati intimi della mente e del corpo. Astrazione che si coniuga – in modo contraddittorio e complementare – a una regressione nelle mitologie più arcaiche, secondo una logica che Tricomi analizza ricorrendo alle categorie di pensiero di Fisher, di Anders e di Adorno (in particolare la Dialettica dell’illuminismo). D’altra parte – ricorda Tricomi – secondo Lacan la legge non fa tanto riferimento ai padri reali, che possono pure aver perso ogni autorità, quanto al padre simbolico, che nelle sue scansioni astratte può continuare a reggere il dominio attuale del capitale in forma impersonale e invisibile.

PARAFRASANDO UN DETTO celebre si potrebbe dire: sopra di noi il cielo dell’astrazione finanziaria, dentro di noi il cedimento di ogni morale e il rigurgito di mitologie caotiche, in cui le figure archetipiche del Padre e della Madre si mostrano nelle loro forme più slabbrate e persecutorie. In Bruciare tutto di W. Siti, Tricomi intravede i tratti di una religione immanente del capitale, molto simile a quella descritta da Walter Benjamin: «La nostra è l’era della perversione generalizzata perché di fatto ammette esclusivamente l’idea di un’immanenza – quella di un pur fantasmatico godimento frenetico, da ottenersi qui ed ora – che però si erge a trascendenza e come tale pretende di essere ritualmente ossequiata». È un’esistenza che si può esprimere quasi solo in termini ossimorici come una inerte ebbrezza, o come ha scritto Paolo Virno nel suo Dell’impotenza, una «paralisi smaniosa»: una proliferazione di potenza che per la sua incapacità ad autolimitarsi si converte nel suo opposto, in una inibizione intimorita o peggio ancora – come nei protagonisti di La città dei vivi di Nicola Lagioia – nell’accettare di «essere nulla in sé, pur di ambire a diventare ogni cosa oltre sé».

In questo quadro non ottimistico cosa può fare la letteratura? Per Tricomi è una forma di resistenza del desiderio utopico, ma certo non in modo ingenuo. L’autore deve oggi essere consapevole del suo coinvolgimento nella consumazione della vita che vorrebbe criticare, deve in parte accettare di non essere immune dall’aspetto clownesco della attuale produzione culturale; ma allo stesso tempo non deve cedere sul piano della forma, «contenuto sedimentato» (Adorno) e irrinunciabile.

SOLO CHE OGNI FORMA deve contaminarsi, ogni genere sfiorare gli altri, in un «incrocio tra le più disparate pratiche discorsive», come nell’ultimo Pasolini (in Petrolio e in Salò-Sade). Tutto con l’unico scopo di mostrare – sia pure nel modo torto che ci è concesso – che l’ordine attuale del capitale non è «naturale» e non è intrascendibile. Se la forma cede al frammento di sé è solo per affermare che nessuna totalità è insuperabile, e che negli spazi vuoti si può aprire il varco di un’utopia concreta.