Il Villaggio Eni di Borca di Cadore è una sorta di utopia realizzata. Voluto da Enrico Mattei, che sognava di creare un luogo dove i suoi dipendenti potessero andare in vacanza, ma dove fondamentale fosse l’interazione continua con la natura. L’idea dell’imprenditore era quella di un villaggio sociale, in cui l’impostazione urbanistica parificasse le varie categorie di lavoratori, limando le differenze almeno nel periodo della permanenza a Borca. Che questo fosse poi possibile o meno, non si sa. Di certo l’opera visionaria ha preso forma tra gli anni ’50 e ’60 grazie all’eccezionale lavoro di Edoardo Gellner, architetto sensibile alle peculiarità degli ambienti di montagna, che ha curato la costruzione di questo enorme complesso capace di ospitare seimila persone. Uno spazio di due ettari ai piedi del monte Antelao, in dialogo continuo con la montagna, una concezione di paesaggio modernissima che, all’intervento massivo, ha preferito una progettazione attenta, si pensi all’esteso rimboschimento di una zona ghiaiosa.
Ora il bosco però divora tutto. Siamo a neanche venti chilometri da Cortina, eppure questa zona delle Dolomiti pare dimenticata. Ed è da questa considerazione che nasce il lavoro di Dolomiti Contemporanee, nel 2011. L’idea è semplice: portare l’arte in zone depresse, trascurate. Far rinascere territori ormai abbandonati, portando nuova linfa. E cercare di ridefinire la rappresentazione stessa della montagna, che relegata in immagini da cartolina ha finito per implodere e morire per consunzione. Meglio scegliere sedi inaspettate, tracce di mondi sommersi. Come l’ex occhialeria di Taibon Agordino, enorme costruzione degli anni ’70, che grazie al periodo di mostre e residenze artistiche ha avuto visibilità ed è tornata in funzione grazie ad alcune attività commerciali che vi si sono insediate. O come il complesso di Sass Muss, stabilimento degli anni ’20 voluto dalla Chimica Montecatini: fermo da venticinque anni, è stata la prima sede di DC, visitato da diecimila persone e ora in parte riattivato grazie ad una cioccolateria. La nuova sfida è il villaggio di Borca, restaurato e riattivato da Minoter, che ha rilevato le strutture dall’Eni nel 2001. Parte degli edifici vengono usati d’estate per ospitare gruppi di ragazzi, inoltre lo spazio è spesso sede di workshops e visite di studio. Ma non basta. Alcuni artisti sono in residenza nel complesso, per cercare di operare sullo spazio e tirarne fuori nuove visioni. È nato poi Progetto Borca, cantiere virtuale che avrà il compito di raccogliere idee per mettere in moto processi che facciano ripartire in modo attivo queste strutture futuristiche.
Il format creato da Gianluca D’Incà Levis con Dolomiti Contemporanee, capace di mettere in comunicazione in modo innovativo cultura e realtà economica, ha acquisito credibilità negli anni. Sono decine i partners, tra enti pubblici e soggetti privati. Più di centocinquanta artisti sono stati ospitati nelle sedi del progetto e da quest’edizione sono in corso importanti scambi internazionali, come la collaborazione con la Real Academia de España o la piattaforma italo-francese Piano, che permetteranno di accogliere artisti con regolarità.
E poi c’è Casso. Siamo sopra la diga del Vajont e l’orma del pezzo di montagna staccatosi più di cinquant’anni fa è ancora ben evidente davanti a noi. La ferita di quell’ottobre del 1963 ha paralizzato per decenni questi territori, rendendo difficile immaginare un altro senso a questi luoghi se non quello di rievocare una tragedia. L’apertura del Nuovo Spazio nel 2012, unica sede fissa di DC e ricavato dalla vecchia scuola elementare del paese, ha cercato di smuovere questa situazione (qui, fino al 16 novembre, c’è la mostra Il meteorite in giardino). Ora ci proverà anche un concorso internazionale, Two calls for Vajont (tra i giurati ci sono Marc Augé e Alfredo Jaar), che riguarderà proprio la facciata della vecchia scuola e la stessa diga, con un’opera permanente a segnare il livello raggiunto dall’acqua nel ’63. Debora Manarin, 21 anni, è una dei quindici abitanti di Casso. Fa parte dello staff di DC e trova che «dipingere la diga sia molto utile. È un gesto forte e forse non tutti lo vedranno bene, però penso che dopo cinquant’anni sia quello che serva. È importante il meccanismo che innesca una cosa così, anche se non sei d’accordo ti spinge a pensare, a ragionare almeno sulle motivazioni». Arte pubblica, di tutti, che renda la memoria vita e finalmente proponga immagini innovative non più solo legate a un disastro, ma che siano l’inizio di un percorso nuovo.