Sull’antropomorfismo delle nuvole e della vegetazione che imprigiona gli antichi resti di Triokala, la città che dà il titolo al film d’esordio di Leandro Picarella presentato nel Concorso Internazionale a Filmmaker, lo sguardo del regista siciliano sembra subito cercare uno specchio possibile di raccordi fra passato e presente con la nostalgia di una visione panica della natura in cui l’uomo ha/aveva una simbiosi con gli altri esseri viventi a livello di istinti e sensazioni. Arroccata, per tradizioni e sacralità, sulle rovine della città greca, sorge, in provincia di Agrigento, Caltabellotta, una manciata di abitanti ai piedi di un Pizzo, dove il velo della nebbia sottrae al concreto, terra apparentemente cristiana sovrastata da un cielo pagano ammantato di foschia e nubi.

A partire dalla citazione programmatica da I grandi iniziati di Edouard Schourè, sulle leggi cicliche della natura, il regista siciliano guarda al cinema rapsodico di Franco Piavoli, che ha gentilmente prestato i suoi obiettivi, ma anche a Godard e alla sua indagine sul mistero dell’impalpabile, in film come Passion e Je vous salue Marie, mentre il paesaggio, fin dalle prime inquadrature, sembra assoggettarsi a una struttura rigorosa, a simmetrie perfette, al contrasto fra elementi orizzontali e verticali ma, amplificando i suoni del mondo, gli unici ancora in grado di tramandare il sapere ancestrale, Picarella conferisce all’ordinario un senso elevato, al quotidiano un aspetto misterioso e al noto la dignità dell’ignoto.

Il regista siciliano apre il suo sguardo anche al presente della piccola città, alle strade scolpite nella roccia e squarciate dalle marmitte dei motorini, ai suoi abitanti ebbri di sole alle prese con la raccolta delle olive. Piccoli brani di vita del locus amoenus introducono anche l’esistenza dell’arcano Zu Emanué, in apparenza semplice contadino circondato da animali festosi ma nella realtà uno degli ultimi eredi della misteriosa, settecentesca istituzione dei cirauli, maghi e guaritori capaci di alleviare le sofferenze fisiche grazie alla pranoterapia e a uno speciale balsamo ottenuta dalla frittura di vipera.

 

Presso la sua dimora, braccianti trovano il sollievo di una medicina atavica che dilata il tempo e che trascina il film, e i ragazzi curati da Zu Emanué, nella sequenza-simbolo di questa sinfonia di laica sacralità e che ha per protagonista il demone di cartapesta U Diavulazzu, bruciato, il giorno della festa dell’Immacolata, da un fuoco pagano, che ricorda, anche per ritmi tribali, il rogo dei bimbi de Il segreto di cyop&kaf.

Nel silenzio del mattino seguente, gli echi della messa in scena vengono riassorbiti dal ciclo naturale in una ronde di elementi primari dove lucrezianamente «il nascere si ripete di cosa in cosa» come l’arsenale di segni offerti dal paesaggio che Picarella utilizza per riflettere anche sulla consistenza del linguaggio cinematografico e sulle potenzialità di una macchina da presa che esprime il desiderio continuo di una presa di contatto e di congiunzione con il creato, nelle sue coniugazioni tanto eteree quanto carnali.

Sullo stato di porosità fra passato e presente, che contamina anche il tessuto narrativo, si adagia anche Anapeson di Francesco Dongiovanni, autore amato da Filmmaker presente lo scorso anno con Giano sempre nel concorso Prospettive. Il suo nuovo cortometraggio fornisce coordinate storiche e sentimentali per tracciare un percorso filmico di «mise-en-trance», d’ipnosi sensoriale e di scrittura come referente principale del linguaggio cinematografico, traducendo in immagini odierne i racconti settecenteschi dell’entroterra pugliese, raccolti dal conte-botanico svizzero Carl Ulysses von Salis-Marschilins, in Viaggio nel Regno di Napoli, durante un soggiorno presso il Casino del Duca della nobile famiglia Caracciolo-De Sangro, a San Basilio in provincia di Taranto, masseria fortificata nel 1600, oggi depredata dal tempo.

A partire dal titolo, che simboleggia una contaminazione delle dimensioni temporali, la camera di Dongiovanni disegna traiettorie e panoramiche nello spazio in rovina, tracciando geometrie per ristabilire i legami, non solo di tempo, con le mappe e i bestiari custoditi nella biblioteca di Martina Franca che sembra contenere, anche nei movimenti di un lento carrello, tutta la memoria di un mondo fatalmente fagocitato. In Anapeson, solo la natura sembra voler combattere, con il suo ciclo infinito, la memoria degli uomini e delle cose, vivacizzando di vento i terreni circostanti e sbirciando, fra i muri in rovina, con fiori, erbe e luce la cecità contemporanea.

Anche in Giungla dell’artista visiva DER Sabina, ancora nel concorso Prospettive, possiamo percepire gli stessi spaesamenti fra parole e immagine ma qui la camera «primordiale» della regista cerca, con l’affanno di un contatto terreno, un equilibrio fra i contrasti di un racconto passato di follia e l’eterno presente di una donna. L’occhio di DER Sabina sembra aprirsi per la prima volta, scoprire un nuovo mondo, regalare, con affettuosa ispezione, un sogno incontaminato di normalità alla mente della protagonista per poi quasi rinunciare all’utopia e rinchiudersi in una cucina «abitata» come tante altre. Ma è sempre la parola dello spaesamento a uniformare gli ambienti, ad ammantare di cul-de-sac un mondo mentale chiuso nell’atemporalità e la camera non può che vagare nuovamente, cercare altri appigli di speranza in un gesto registico di rara adesione e di infinita dolcezza.