L’Italia è un paese che coltiva grandi diseguaglianze interne. Ogni analisi ce lo ricorda e negli ultimi tempi di crisi in termini sempre più crudi. È impossibile tracciare una storia economica del nostro paese senza evidenziare da subito il carattere non omogeneo ma differenziato e conflittuale del suo percorso. A maggior ragione se la storia economica non viene separata ma intersecata con quella della politica, della cultura, delle istituzioni, della società. Allo stesso tempo – ci dice Ciocca – «sia rispetto al passato sia nella comparazione internazionale» gli italiani possono essere considerati ricchi». Ma sempre più si avverte diffusamente la precarietà di una simile relativamente privilegiata condizione. Alla domanda che dà il titolo al suo ultimo lavoro (Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia 1796-2020, nuova edizione aggiornata, Bollati Boringhieri, pp. 433, euro 25) Pierluigi Ciocca fornisce una risposta nettamente negativa affidandosi alle parole di Carlo Cipolla, «come la storia ci insegna non possiamo sederci sugli allori».

PER ARRIVARE AI DRAMMI del presente, l’autore sceglie la sfida della «lunga durata». Viene alla mente la grandiosa costruzione storica di Fernand Braudel, basata sulla lettura della storia del capitalismo partendo «dalla vita materiale, da quella accumulazione così lenta da somigliare a quella dei fenomeni naturali», come commentava Alberto Tenenti. Al contempo, Braudel afferma a che «il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo stato, quando è lo stato».
Non diversamente Ciocca ci descrive un viaggio lungo più di due secoli fra le strutture del quotidiano materiale, le istituzioni statuali e la politica. Una simile dilatata dimensione temporale gli permette di analizzare le cause della crisi e di ragionare sulle vie d’uscita. Produttività e concorrenza sono termini che ricorrono frequentemente, ma non riguardano solamente né principalmente quelle del lavoro o sui costi, piuttosto l’insieme del sistema economico e come esso è stato nelle varie fasi politicamente governato. Quindi, vi può essere positiva concorrenza fra pubblico e privato come a suo tempo nella rivalità fra l’Alfa-Romeo a controllo pubblico e Fiat e Lancia.

L’AUTORE RINTRACCIA le cause del nanismo e del familismo industriale italiano nelle modalità con cui è avvenuto il lento trapasso da una economia prevalentemente agricola a una industriale.
Per conoscere una vera rivoluzione industriale bisognerà attendere il ventennio 1950-1970, ossia il cosiddetto miracolo economico italiano inserito entro i «trenta gloriosi» del capitalismo mondiale. Giustamente Ciocca ricorda del miracolo economico anche «limiti e squilibri che lo resero in seguito insostenibile».
Ha ragione nel sottolineare che ai primi ambiziosi progetti trasformativi nel dopoguerra subentrarono ben presto propositi assai più moderati. Ma da un lato non andrebbero sottovalutati i tentativi di dare vita a una vera e propria programmazione, i cui insegnamenti nel bene quanto nel male ci sarebbero utili proprio ora. Dall’altro è un peccato che qui venga solo sfiorato ma purtroppo non affrontato – ci vorrebbe un altro libro – il dibattito che si sviluppò a sinistra, in particolare nel Pci.

NEL FAMOSO CONVEGNO dell’Istituto Gramsci (Roma 23-25 marzo 1962) sulle Tendenze del capitalismo italiano la discussione che si accese non si fermò alla disputa se eravamo di fronte a un capitalismo immobilista, per cui alle forze democratiche competeva il compito di portare a termine la rivoluzione borghese o se invece assistevamo già al dispiegarsi di uno sviluppo che imponeva alle classi subalterne una nuova sfida che il nascente centrosinistra non sarebbe stato in grado di condurre.

Diceva Lucio Magri, in polemica in particolare con Giorgio Amendola che «se il capitalismo avanzato apre soprattutto contraddizioni nuove» anche le lotte concrete e gli obiettivi devono contenere «una critica al sistema capitalistico, se non addirittura alla società mercantile e al lavoro alienato». Ma tale necessità restò minoritaria nella sinistra, con conseguenze per l’intera società. Non stimolato da una critica radicale ai suoi fondamenti – se si fa eccezione per gli anni che vanno dal ’68 al ’75 dove videro la luce le uniche grandi riforme che abbiamo conosciuto – il capitalismo italiano ha perduto capacità innovativa, mentre i processi di globalizzazione riducevano al minimo la competizione sui costi. Ciocca ci racconta gli sforzi di Bankitalia per contenere la grande inflazione degli anni settanta (il 23% nel ’77). Ma questa non è neutrale, ha il compito specifico, alterando i prezzi relativi, di spostare profitti e poteri dal capitalismo industriale a quello finanziario, facilitata dalla rivoluzione conservatrice del capitalismo a livello internazionale.

LA DEFLAZIONE SUCCESSIVA avvenne in un quadro ove, annota Coccia, «mentre la produttività già rallentava e ristagnava, i profitti assurgevano ai massimi dal dopoguerra». Con un debito pubblico cresciuto e crescente, rispetto al quale colpisce però l’assenza, tra le causalità individuate dall’autore, del divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981, che divenne modello per il rapporto fra Bce e istituzioni europee. In conclusione, per Coccia «la responsabilità della decadenza economica del paese è in prima istanza imputabile ai governi e alle imprese». La sua rinascita è affidata a un rapporto positivo tutto da costruire fra economia e la «triade cultura-istituzioni-politica». Peccato che nessuna delle tre goda di buona salute.