Tra l’imperfezione e le arti c’è sempre stata un’alleanza, tra l’incompleto e il pensiero che lo scruta. È l’anello che non tiene che aizza il pensiero e la visione: «lo sguardo fruga d’intorno», dice Montale, perché in quel calcolo sbagliato c’è l’indizio di una sensatezza da cercare. Viene da ripetere, da ricominciare a mettere in colonna le quantità di mondo, una sotto l’altra per poi vedere se finalmente il conto torna. È precisamente in quell’incessante ripetersi del tentativo – ostinato e vano – di trovare il punto dove tutto tiene che inizia l’arte, la filosofia, e insieme la nevrosi.

UN MONDO IN BOLLA, l’equilibrio fatto istituzione, conduce alla secche del pensiero: è il paradosso della felicità pubblica e privata, che porta benessere e molto poco nelle arti. Mi pare ci sia questo nodo, dietro Ina e Ludwig, questa novella così novecentesca che Tommaso Di Francesco ci regala, per il tramite delle edizioni Asterios (pp. 80, euro 12). Un Ludwig da non-fiction, si direbbe oggi, ovvero un Wittgenstein realmente vissuto, realmente spedito nel campo di Cassino durante la prima guerra mondiale, messo qui a reagire con il contesto delle campagne romane e con l’asprezza della vita che vi si svolgeva nel ventennio. Tra questi Ina, per l’appunto, ragazzina che ha disimparato quasi tutto, che attraversa il mondo senza poterlo dire – per difetto di parola – né calpestare. Ludwig dispone l’alfabeto sulla sabbia, scolpendola con una canna, e isola lettera da lettera, mostrando la magia che poi la saldatura compie.

Prima solo suoni, poi se messi insieme fanno il mondo. «Ina afferrò la canna e diligentemente ripetè il disegno alla perfezione. Brava Ina, le fece capire lui con gli occhi spalancati di meraviglia e con il volto aperto al sorriso come da tempo non gli era capitato». Ina ripete, emula, trasforma il segno – o disegno – in conoscenza. E la conoscenza in barbaglio improvviso di felicità.

LUDWIG E INA si alleano di questo legame naturale tra la filosofia e l’infanzia, dove l’inconsueto si apparenta e produce visione, a volte splendore a volte terrore. Dove il mondo non è ricondotto all’ordine ma trova una forma nel racconto che se ne dà, o nell’ipotesi che se ne fa. Le lettere-disegni di Ludwig non sono altro che immagini rupestri, cioè il primo modo in cui l’uomo ha fronteggiato l’ignoto. E anche la prima evidenza – nello sguardo retrospettivo con cui oggi guardiamo a quelle espressioni – che tra il gesto infantile e l’arcano c’è una prossimità che risale alle origini dell’umano. Che elementare è ciò che appartiene agli elementi, più che ciò che è semplificato: il primario.

FATTO PRIGIONIERO nei dintorni di Trento il 3 novembre del 1918 nelle file dell’esercito austroungarico, Ludwing Wittgenstein fu destinato prima al campo di Como, e poi nel gennaio 1919 venne trasferito nel campo di Cassino-Coira, nel Lazio meridionale. Vi rimarrà fino all’agosto successivo. Di quella permanenza, seppur così breve, rimangono soprattutto le testimonianze dei compagni di prigionia, prima tra tutti quella di Franz Parak, insegnante austriaco parimenti deportato, che gli dedicò un libro, Wittgenstein prigioniero a Cassino.

Il Wittgenstein che Parak descrive, ai tempi ventenne, è un uomo il cui «modo di parlare esprimeva un’eccezionale determinatezza e risolutezza». Divenne in maniera naturale – stando al racconto di Parak – il centro di piccoli simposi quotidiani, le sedie portate fuori dalla baracca e soldati e ufficiali degli Imperi centrali raccolti a leggere Dostoevskij e Tolstoj. Nelle borsa, che abbandonava soltanto obbligato, il manoscritto del Tractatus.

DI FRANCESCO è colto ed elegante, e pur essendo un giornalista qui manda avanti il poeta: sa che la letteratura nasce da quel misterioso scoppio, di cui le parole sono la miccia, tra ciò che è reale e ciò che sarebbe potuto succedere. E dunque certo il Wittgenstein del Tractatus Logico-philosophicus, certo il precursore di quanto ancora oggi filosoficamente e esistenzialmente esperiamo. Ma soprattutto quel ragazzo che con l’alfabeto mette insieme – e insieme mette a soqquadro – un’ipotesi di mondo, e poi la condivide con la figlia «imperfetta» di una famiglia di mezzadri che vivono la vita feroce delle campagne romane dei primi vent’anni del Novecento. Il che significa, l’incontro, in qualche maniera, tra due principianti, che riconoscono che è l’elemento primo – la lettera, nel caso di Ina – quello che genera complessità.

Tommaso Di Francesco fa, d’istinto, l’unica cosa che è possibile fare nel contesto in cui viviamo oggi: salta indietro di un secolo, va a guardare là dove il mondo saltò in aria in maniera irrimediabile. La carneficina della prima guerra mondiale, l’indeterminatezza ormai conclamata dalla fisica quantistica, la coscienza attraversata dai crepacci della psicanalisi.
I primi anni del secolo ventesimo, cioè, che dicevano in maniera chiara che la modernità era finita, che la pezza d’appoggio con cui avevamo prova a tamponare il disastro utilizzando la razionalità cartesiana, non poteva più funzionare. Ai tempi si cercò di mettere tutto sotto il tappeto, tornando a battere il ferro della ragione per raddrizzare coscienze, speranze, ed economie mondiali. Ora è chiaro che quella pezza è saltata del tutto.

E DUNQUE Ina e Ludwig, questa piccola novella, intensa e così apparentemente anacronistica (ma si leggano le pagine sull’epidemia di influenza spagnola, e si correrà a vaccinarsi), porta invece dritti al punto nodale. Ovvero che siamo davvero di fronte a un paradigma nuovo, in cui il mondo è minato alla base, in cui le povertà ormai inarginabili sono l’evidenza della patologia (terminale?) del mondo in cui viviamo.
E soprattutto che se c’è qualcosa di urgente, urgentissimo, da fare è produrre soprattutto un pensiero nuovo, rischiare la goffaggine di farsi deridere ma azzardare nuovi modelli di descrizione della realtà. Non c’è nulla che tiene più, la rabbia sociale ne è solo la manifestazione più evidente e più superficiale. Senza un pensiero che provi ad accogliere tutto questo – senza un Wittgenstein che si porti dietro e difenda a spada tratta il manoscritto di un nuovo trattato – siamo destinati a ben poco.

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SCHEDA. Il «Tractatus» nello zainetto

«Ludwig Wittgenstein e la Grande Guerra» è un volume a cura di Marco De Nicolò, Micaela Latini, Fausto Pellecchia recentemente edito da Mimesis, nato da un’iniziativa del laboratorio «Tempo, Spazio, Strutture» della Università di Cassino e che comprende saggi di storici, germanisti e filosofi. Si ripercorre l’esperienza segnante della prigionia del filosofo austriaco (1889-1951) a Cassino – catturato il 3 novembre 1918 nei dintorni di Trento e arrivato nel campo di internamento di Caira nel gennaio 1919. Il libro è anche occasione per interrogare le condizioni dei prigionieri di guerra durante il primo conflitto mondiale, soprattutto per rileggere alla luce di questo passaggio cruciale quelle pagine di bozze e appunti che il filosofo viennese portava con sé nel suo zaino e che nel 1921 avrebbero visto la luce con il titolo: «Tractatus logico-philosophicus», un testo centrale nella storia del pensiero occidentale divenuto famoso in tutto il mondo.