Il capo nella declinazione italiana assurge sempre a figura minima, declinazione maschile di un potere meschino e a tratti miserrimo, ma al tempo stesso fenomeno di costume capace di contenere il nazionalpopolare come la tragedia storica, Fantozzi e il fascismo, Il cumenda e Sacra Romana Chiesa.

DEL CAPO inteso come capoufficio italiano scrive Francesco Pacifico che conferma con il suo ultimo romanzo Il capo (Mondadori, pp. 166, euro 18,50) una coerenza letteraria rara, ma al tempo stesso disinvolta e lontana da facili artifici. Pacifico si mantiene a distanza di sicurezza dal capo, dalla sua untuosità logorroica e allucinatoria e lo fa con un movimento che prima di ogni altra cosa è letterario. Le prime pagine de Il capo ricordano a tratti quelle de La Jalousie, il romanzo sperimentale del 1957 di Alain Robbe-Grillet (tradotto a suo tempo, mirabilmente da Franco Lucentini). Là dove ne La Jalousie a contare erano le ombre, qui ne Il capo, è la luce e la sua posizione, se là era l’esattezza dello sguardo, qui è la rimembranza di una lucidità in caduta libera a segnalare il pericolo e la conseguente perdita di coscienza.

Francesco Pacifico è in scena come voce narrante che prende corpo dalla storia che Gaia gli ha già raccontato: una storia di molestia sul lavoro. Il romanzo vive così di più livelli che rappresentano una forma, ma anche una scelta morale. Livelli che non sono solo narrativi, ma anche linguistici: la voce di Pacifico più entra nel racconto più si fa rarefatta, ricercando una precisione a tratti stenografica che restituisca la violenza metallica e fredda subita, ma che al tempo stesso possa rappresentare pienamente la scena. La violenza del capo e l’annichilamento di Gaia, uno stato febbrile che attraversa i protagonisti di un racconto in cui la stessa voce narrante di Francesco Pacifico è chiamata in causa.

Il romanzo diviene così una riflessione sull’eros e sulle relazioni tra uomo e donna, sulla nostalgia del maschio che assume sempre più la forma della nostalgia. Ovvero del nostalgico inteso come quel milieu di paccottiglia del bel tempo che fu. Una memoria che si fa gagliardetto da gruppuscolo: manate e dargli di gomito. Tuttavia Pacifico non deborda mai, fa vivere la pagina e la sua letteratura con un’estrema cura che si riflette subito sui suoi personaggi, in particolare in quelli femminili.

DUNQUE NON UN BANALE e generico tentativo di auto assoluzione del maschio, ma la presa d’atto di una comprensione trasformativa a tratti incerta e figlia di un’indagine in corso. Un’analisi ancora in buona parte tutta da compiere, ma fortemente presente nella coscienza del narratore. Non un libro di denuncia o di accettazione della situazione, ma un’interpretazione vera e propria che si pone l’obbligo di un’elaborazione.

In copertina un dipinto d’acqua di Samantha French afferma l’ipotesi di protagonisti privi di un’identità precisa che non sia quella di un ruolo dato, ma è proprio quell’assenza del volto a rivelare la violenza di una pretesa maschile quanto mai fragile e inconsistente. Il capo è il romanzo di un tempo complesso eppure estremamente rarefatto in cui la scomparsa del maschio coincide oltre che con la sua incapacità di riconoscere il proprio maschile, anche e soprattutto con il suo rifiuto dell’eros in cambio di un ruolo e di una posizione.

Un gioco triste in cui l’appartenenza si oppone alla relazione lasciando sul campo l’inconsistenza di un lemmario lavorativo (call, posizionamento, team building, stakeholder, ecc.) che nella sua traduzione all’italiana, non è altro che l’armamentario del peggior burocrate, o meglio della migliore banalità del male.