L’estate ha rappresentato a lungo un tempo sospeso per la politica. Perfino nel travaglio che condusse al centro-sinistra degli anni ‘60 i partiti si concessero una pausa estiva all’ombra del celebre “governo balneare”.
Oggi, sotto l’urto del Covid e di una crisi economica più che decennale, lo scontro politico sembra non andare mai in vacanza. Ragioni ce ne sarebbero a iosa: la pandemia suggerisce drastiche inversioni di tendenza in materia di sanità pubblica e di privilegi dei grandi gruppi farmaceutici; le crisi aziendali devastano il paese da nord a sud, da Brescia a Bologna a Firenze a Napoli, gettano intere famiglie nella disperazione e fanno arretrare ulteriormente l’Italia nella divisione internazionale del lavoro; la vicenda Mps pone i gruppi dirigenti davanti ad un bivio non banale, se continuare nell’indirizzo suicida di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, oppure dotare il paese di una banca pubblica fondamentale nella gestione dell’economia reale; la crisi climatica impone decisioni non più rinviabili; la scuola pubblica è un campo minato di precarietà lavorativa e di porte spalancate all’esclusione sociale; la cosiddetta ripresa economica naviga su un mare di precarietà.

Se questo è il panorama, appare sconcertante che nell’estate più politicizzata della nostra storia recente il dibattito si polarizzi attorno a piccole restrizioni da imporre a chi volesse consumare un caffè ad un tavolino all’interno di un bar, come si trattasse della madre di tutte le battaglie. È il mondo alla rovescia della politica neoliberale, che fa passare per tecnicismi scelte politiche dirimenti e si avviluppa con toni apocalittici attorno a fatti di costume marginali. Forze politiche completamente avulse dalla realtà del paese si fanno dettare l’agenda da grandi corporazioni mediatiche intente a spargere una coltre di green pass sulle condizioni reali delle persone in carne ed ossa.

C’è però, alla base di questo mondo politico rovesciato, un dato strutturale. La restaurazione neoliberale non ha comportato solo un’ingente ridistribuzione di ricchezza dal basso verso l’alto, ma anche una nuova configurazione istituzionale. Si discute tra gli accademici se caratteristica dello Stato neoliberale sia il suo estremo lassez-faire o il suo interventismo a senso unico a favore della grande impresa; quando invece il vero dato di rottura andrebbe colto nell’impermeabilità delle sue istituzioni al conflitto sociale e redistributivo. In un tale quadro istituzionale il capitale inserisce il pilota automatico, e la politica annaspa a favore di telecamere attorno a fatterelli di colore.

Bisogna comprendere le ragioni profonde di questa grande trasformazione e individuare a tempo i rimedi. Per tutto il dopoguerra e fino agli anni ‘80 le politiche di intervento pubblico in economia, la vivacità dei partiti e dei sindacati e le politiche di piena occupazione avevano relativizzato il potere nelle nostre società. Un qualche equilibrio all’interno dei luoghi di produzione era stato raggiunto; le esigenze dell’accumulazione erano delimitate – attraverso le costituzioni antifasciste e la mobilitazione operaia – da esigenze di coesione sociale; la nozione stessa di politiche di piena occupazione stava ad indicare che eventuali periodi di crisi sociale non erano da considerare fatti naturali, ma frutto di decisioni contrastanti con l’interesse generale. Le istituzioni sorte dalla lotta al fascismo e dal conflitto operaio erano sufficienti ad inceppare i meccanismi dell’accumulazione e le logiche di potere ad essi sottese.

Era fondamentale dunque, per i detentori dei grandi capitali, rompere la dialettica virtuosa tra conflitto e istituzioni che aveva permesso l’avanzamento materiale e di potere delle classi subalterne.
I contropoteri edificati dai gruppi subalterni nell’esercizio del conflitto, poi istituzionalizzati attraverso l’opera dei partiti di massa, dovevano essere banditi. Il potere decisionale doveva essere avocato ad istituti democraticamente irresponsabili e incontrollabili, la trojka. Il potere delle assemblee elettive doveva essere compresso. La liberalizzazione dei movimenti di capitale doveva essere l’arma definitiva per tenere il lavoro ovunque sotto ricatto.

Per invertire questa tendenza molte misure concrete possono essere suggerite, dalla riproposizione del ruolo pubblico in economia al salario minimo, alla fortificazione dei meccanismi di reddito di base, alla messa in campo di azioni decise contro le delocalizzazioni. Ma alla base dovrebbe figurare, come impegno per le forze progressiste, un compito di più lungo periodo: la riconfigurazione del nesso tra conflitto e istituzioni, il rovesciamento delle logiche dello stato neoliberale e la nuova costituzionalizzazione dei contropoteri popolari. Altrimenti restiamo condannati a fare da spettatori al dibattito per il diritto del caffè al tavolino, mentre fuori il capitale procede con il pilota automatico.