Con la guerra Putin si riconnette a un passato zarista da cui mutua anche espressioni linguistiche e volontà di disconoscimento identitario. Ne abbiamo parlato con il Prof. Oleg Rumyantsev. Ucraino, dopo aver concluso gli studi di economia a Kiev, ha proseguito la formazione universitaria in Italia. Si è dedicato alla slavistica presso l’Università Ca’ Foscari Venezia, si è occupato di didattica delle lingue slave presso l’Università degli Studi di Macerata e Urbino; ha approfondito il tema della storia delle comunità ucraine nei Balcani, oggi è professore Associato all’Università di Palermo, dove si occupa di lingua e traduzione russa.

Il titolo della celebre canzone «Oci Ciornie» non è russo, dunque.

Oci Ciornie è un’espressione ucraina, intellegibile in lingua russa, perché all’ucraino ricorre il russo quando vuole dare una sfumatura romantica e arcaicizzante.

La bellezza cantata nel testo è mediterranea, diversamente da quello che lo stereotipo farebbe immaginare.

Sì si parla di occhi scuri perché la bellezza standard nazionale ucraina è quella di occhi neri e sopracciglia nere, infatti nel folclore, nella cultura popolare musicale si celebra una sorta di modello mediterraneo orientale lontano dal fototipo nordico ugrofinnico. Oggi le etnie si sono mescolate e la differenza dei tratti tipici per diverse regioni storiche si è persa.

All’ucraino la Russia riconosce al massimo una dignità di dialetto, e disconoscere un’identità è annientare, nel diciottesimo secolo come ora.

È vero, la Russia come politica di Stato e come mentalità media comune non ha mai riconosciuto l’esistenza degli ucraini come tali, sono russi storti, leggermente «polacchizzati». Oggi Putin vorrebbe tornare ai tempi in cui la lingua ucraina era considerata un dialetto della steppa meridionale. Nella seconda metà del 1800 l’uso della lingua ucraina era interdetto, non si poteva usare per stampare libri ad esempio, e non solo, era proibito l’uso del termine «ucraino». La retorica nazionalista russa sta recuperando l’espressione «piccoli russi» per indicare gli ucraini, designazione usata nella seconda metà del diciottesimo secolo e risalente a fonti greche del quattordicesimo, quando con questo termine vennero chiamati alcuni principati proto-Ucraina. L’impero russo usò questo termine nei confronti degli appartenenti al popolo ruteno come a piccoli russi. «Ruteno» è un etnonimo latinizzato, proveniente dal termine Rus’, lo stato antico slavo orientale con capitale a Kiev. Il termine «ucraino» proviene da kraj, parola polisemica che in ucraino, come in altre lingue slave, denota contemporaneamente «terra, paese» e «confine, marca».

Valicati o meglio cancellati quei confini si scolorano i connotati, il contorno e l’identità del popolo.

È tipico dell’imperialismo russo che elimina per assimilazione e toglie la possibilità di opporsi sfruttando la propria identità, diversamente da quello britannico che storicamente non cancella i connotati, li canzona ma non li disconosce. Il temine di oppressione «piccolo russo» è stato usato fino al 1906, e ne perdura la connotazione (intrinsecamente offensiva) riferita a qualcosa di vagamente romantico e burlesco.