Per Kant due sono le cose che dovrebbero suscitare ammirazione: la legge morale dentro di noi e il cielo stellato sopra di noi. È noto che il capitalismo ha sempre lavorato per produrre meccanismi amorali di soggettivazione individuale e collettiva. Meno noto, o meglio, poco problematizzato è il fatto che l’incedere del capitale ha portato negli ultimi decenni, a causa dell’inquinamento luminoso, alla completa scomparsa del cielo stellato in molte regioni della Terra. È dalla perdita della possibilità di contemplare il cielo notturno, un’esperienza che ha accomunato tutte le epoche storiche in ogni area del pianeta, che si dipana la riflessione di Razmig Keucheyan in I bisogni artificiali. Come uscire dal consumismo (ombre corte, pp. 171, euro 16, traduzione di Gianfranco Morosato).

Il nascondimento del cielo stellato – metonimia quanto mai luminosa della sistematica appropriazione capitalistica della natura – si associa, tra gli altri, all’espansione incontrollata dell’urbanizzazione, alle percezioni di insicurezza sociale, alla pesca industriale. In breve, al conflitto tra chi sostiene le esigenze del cosmocapitalismo e chi rivendica il diritto all’oscurità. La scomparsa del cielo stellato, insomma, mette in evidenza che «i bisogni sono storici», anzi che «i bisogni non sono solo storici, ma anche politici».

A PARTIRE DA QUI e usando come bussola il pensiero di André Gorz e Agnes Heller, Keucheyan si impegna a individuare ciò che distingue i bisogni «autentici» da quelli artificiali. Operazione pericolosa in quanto sempre a rischio di cadere nella trappola di un naturalismo ingenuo se non addirittura reazionario. Rischio, però, da cui l’autore si smarca subito, sottolineando che anche i bisogni biologici hanno una storia e che «non tutti i bisogni “autentici” sono di ordine biologico». Il criterio per distinguere i due tipi di bisogni si va allora a collocare nel «punto di fusione tra critica dell’alienazione ed ecologia politica» (tra legge morale e cielo stellato): con un’ottica forse inconsapevolmente spinozista, il sociologo rintraccia tale distinzione nella capacità dei bisogni «autentici» di accrescere e dei bisogni artificiali di diminuire la potenza delle soggettività e del mondo naturale, tenendo presente che la distruzione della natura aliena soprattutto e più intensamente la vita delle classi subalterne.

DETTO ALTRIMENTI, «la (ri)definizione dei bisogni è dialogica e non ontologica»: alla violenza del circolo produzione/consumo va opposto un freno d’emergenza che, tramite «l’interazione con gli altri», possa renderci consapevoli di cosa si ha «veramente bisogno e quindi anche di ciò che è superfluo». Il che significa che la questione non si gioca su un registro dicotomico ma piuttosto nella ricerca collettiva di soglie per una distribuzione equa, democratica e sostenibile della buona vita.
Senza lasciarsi intimidire da questo «compito enorme», Keucheyan chiude il saggio elencando una serie di strategie che, allungando la vita delle merci, renderebbe il «valore d’uso (…) egemone rispetto al valore di scambio». «Non è ancora il socialismo», si affretta a dire, «ma comincia ad assomigliarvi». O, se preferite, non è la rivoluzione ma una strategia rivoluzionaria interessante. Una strategia che – come avrà modo di scoprire chi leggerà questo lucido contributo – mira all’arresto della macchina capitalista e non a una qualche forma di green economy. E, come sempre, «il tempo politico» della transizione (psichica, sociale e climatica) «dipende(rà) dalla lotta di classe».