Ha avuto mille vite l’imponente Palazzo dell’Agricoltore di Parma. Ma la sua lunga storia ha ancora diversi capitoli «in scrittura» e non si è impigliata intorno al progressivo abbandono delle sue funzioni primarie.
Nato nel 1939 come creatura dell’architettura razionalista e intitolato alla realtà rurale esaltata dall’Italia stretta nella morsa del fascismo, oggi torna in scena come polo di attrazione di una città, dalla terrazza fino al bunker sotterraneo scavato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. E nell’idea di due gruppi imprenditoriali come Davines e Chiesi, che hanno acquisito l’edificio, a partire dal 2023 potrà assicurare un «rifugio» di benessere, trasformandosi, da un lato, in un luogo di ospitalità (hotel della rigenerazione) che rispetti i principi della sostenibilità, e, dall’altro, in residenze e «cittadelle» della cultura o del business, prevedendo anche spazi esistenziali di lungo periodo. Una sorta di centro multifunzionale che – almeno nelle intenzioni originarie – riesca a calamitare a sé anche la comunità locale, riconsegnandosi (rinnovato) alle sue radici secondo i parametri delle aziende B-corp e provando a invertire la tendenza dello svuotamento dei centri storici urbani.

IN QUESTO PERIODO di transizione fra la scomparsa della sua vecchia vita e la costruzione della sua futura identità, il «corpo» del Palazzo dell’agricoltore è stato attraversato da correnti di energia elettrizzanti. Il curatore Didi Bozzini ha avuto l’intuizione di chiamare a Parma un artista come l’inglese Mike Nelson (con il suo caravanserraglio turco del XVI secolo ha rappresentato la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia del 2011), da anni «collezionista» e «collettore» di storie complesse che assembla nei suoi labirinti percettivi, invitando a un viaggio nel tempo, nella memoria e nelle contraddizioni della società. Così, in quella installazione site specific che è The House of the Farmer, frutto di un lavoro gigantesco e certosino (visitabile fino al 12 giugno 2022, ingresso gratuito) si produce il cortocircuito rigenerativo che farà da fondamenta concettuale al nuovo edificio vivente.

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DAL PIANOTERRA fino all’ultimo, il Palazzo è invaso da cascine legate insieme, cataste scultoree di tronchi, radici e sassi, immaginate come apparizioni improvvise. Alcune «presenze» bloccano la libera circolazione fra le stanze, si fanno barriere naturali. Altre, hanno la potenza centripeta di un organismo sedimentato che scalza la burocrazia immobile a favore della trasformazione alchemica degli elementi. Non a caso, all’entrata (come fosse un diorama) c’è un laboratorio della metamorfosi, atelier che coniuga insieme gli attrezzi del falegname e le idee dell’arte.
Il legno utilizzato per l’installazione – soprattutto lecci e pini marittimi – proviene da un terreno bonificato nella piana ligure vicino Savona: niente di meglio per Mike Nelson che tessere insieme i fili di più storie, famigliari (i proprietari di quel terreno generoso), architettoniche, politiche, ambientali. L’effetto è il rovesciamento dello sguardo, una colonizzazione ad opera del paesaggio naturale delle fredde linee geometriche che inquadrano la personalità dell’edificio.

IL RISULTATO VISIVO, percettivo ed emozionale è la perdita dell’addomesticamento della natura, l’indisciplina, la stessa perseguita da un camminatore versato all’eremitaggio come Thoreau alle prese con il suo «bosco interiore». Al visitatore, in fondo, non è chiesto altro che salire le scale e aggirarsi nelle stanze abitate dai feticci temporanei.
«C’è qualcosa di viscerale nello sgombero di uno spazio – confessa Nelson -. Lo strappo dalla campagna può essere visto, o sentito, come un gesto brutale, in qualche modo in linea con il passato totalitario del palazzo». Eppure, la wildness degli alberi ritorti si sviluppa in contrapposizione sia al lavoro agreste che all’apparato degli uffici cui era destinato al suo esordio l’edificio.
«Il Palazzo dell’agricoltore – continua l’artista – ha una ossatura razionalista, ma i suoi materiali esprimono qualcosa di magico, di nascosto. Anche qui posso rilevare una convivenza tra estremo razionalismo e irrazionalismo: una polarità che possiamo ritrovare in riflesso nel mondo in cui viviamo. Basti pensare alle persone cospirazioniste che credono alle informazioni che pescano su internet».

IL RECUPERO DEL BOSCO e l’offerta di una seconda vita – sia pure artistica – racconta poi la necessità di una sottrazione al ciclo distruttivo messo in moto dall’essere umano. «Da più di venti anni – spiega ancora Nelson – sono interessato alla Land art. Amo molto la sua declinazione americana, ma è problematica: ha nel suo dna una forma di imperialismo, è realizzata da uomini bianchi che costruiscono nel paesaggio monumenti enormi, in una terra che, in principio, non era di loro appartenenza. Quella inglese, invece, si fonda su un esotismo del paesaggio, riarticolandosi – come faccio anche io – in una prospettiva storica e quindi politica. Qualcosa che va nella direzione dell’Arte Povera italiana».