Dodici anni di lavorazione, una storia che cambia in divenire, un piccolo budget promesso sull’idea senza sapere cosa ne sarebbe uscito, un cast minimal e composto in gran parte di non attori e il rifiuto a priori di assecondare la convenzione drammatica… È quasi implausibile che, con queste premesse, Boyhood sia arrivato, domenica sera, fino al Dolby Theatre. Ancora più implausibili sembravano i pronostici secondo cui avrebbe vinto. Ci sarebbe piaciuto. Perché, come American Sniper (e neutralizzati in partenza Vizio di forma e L’amore bugiardo- Gone Girl), il film di Richard Linklater era la provocazione degli Oscar di quest’anno, il gesto libero, slabbrato, che sfidava la logica di una macchina oliata alla perfezione, che boccia il dissenso non politically correct (anche se si manifesta con un botteghino da 320 milioni di dollari, come il film di Eastwood). E che alla fine non ha resistito alla tentazione di…premiare se stessa.

Ci sono tante ragioni per cui, a parità di valore, all’ultimo momento, l’iperbolico virtuosismo di Birdman, la sua comicità stridente, ha battuto la vocazione più sottile, devastante, di Boyhood. Prima tra tutte l’efficacissima strategia promozionale della Searchlight, che quest’anno ha sbancato anche con The Grand Budapest Hotel e che l’anno scorso aveva condotto una campagna «ai limiti» per 12 anni schiavo. A confronto con la minimajor della Twentieth Century Fox, poco possono le casse e il know how della newyorkese IFC, (che distribuisce il film di Linklater) e del suo produttore storico, John Sloss. Avrà contato anche l’attrazione che un film come quello di Inarritu, ricco di interpretazioni difficili e vistose, esercita sugli attori (il più numeroso dei blocchi di votanti dell’Academy); e la sua levigatezza formale che, come quella del film di Anderson, riflette la qualità altissima dell’artigianato made in Hollywood.

Realizzato praticamente «in famiglia», nei sobborghi delle texane Austin e Huston, il film di Linklater, in un certo senso, nega la necessità stessa dell’industria.
Più di ogni altra cosa, però, come lo era Argo, Birdman è un film sul mondo dello spettacolo, sui media, sulla comunicazione, e quindi su Hollywood. In quella sua qualità autoriflessiva è stato il margine della vittoria. Preoccupata per la sua sopravvivenza (i ratings della serata sono scesi del 16% rispetto a quelli dell’anno scorso, il 2014 ha registrato una diminuzione del 5.2% degli incassi rispetto all’anno scorso), invece di aprirsi, Hollywood si chiude ancora di più in se stessa.

Poco importerà, probabilmente, a Clint Eastwood di essere stato snobbato dall’Academy. In platea, seduto vicino a una signora con gli occhi molto blu, aveva l’aria di divertirsi. È diverso per Linklater, il cui cinema decentrato, irriconducibile, non sempre facile da finanziare, avrebbe potuto uscire rafforzato da un’eventuale vittoria. In quel senso, è un peccato.