Mentre si discute sulla sentenza del processo Ruby, sarà utile tornare sulla recente sentenza della Consulta presso la quale aveva ben poche possibilità di successo il ricorso presentato dai difensori di Berlusconi.
Era noto, infatti, l’orientamento del giudice costituzionale che – da tempo e con una giurisprudenza sempre più incisiva – pretende il rispetto del principio della “leale collaborazione”. Un principio costituzionale e comunitario che regola ormai tutti i rapporti tra soggetti politici e istituzionali. Volendo fare l’avvocato del diavolo, si poteva anche sperare di convincere la Corte che fosse stato “leale” il comportamento del Presidente del Consiglio che senza alcuna motivazione o ragioni di urgenza convoca un Consiglio dei ministri proprio nel giorno in cui si era reso disponibile a partecipare all’udienza per un processo a suo carico. Si poteva cercare di argomentare che la “collaborazione” tra Presidenza del Consiglio e magistratura non era venuta mai meno nel corso del processo di Milano, neppure quando, con atto unilaterale e non necessario, l’imputato Berlusconi si è sottratto al giudizio, autodichiarandosi “impedito” con la pretesa di sospendere “legittimamente” il processo. Probabilmente un’impresa disperata, ma i diritti di difesa nel processo non vanno limitati in alcun modo. Dunque, non saremo noi a lamentarci del fatto che i legali abbiano tentato la via del conflitto tra poteri.

Quel che deve indignare è altro: non solo la gazzarra contro una decisione che – come i più avevano previsto – non ha accolto le tesi della difesa, ma anche e soprattutto le argomentazioni poste a sostegno della contestazione del giudice costituzionale. Gli esponenti politici del centrodestra, infatti, rivendicano l’immunità assoluta del Capo. Altro che rispetto delle regole, inopinatamente si sostiene che non c’è alcun legittimo impedimento da dimostrare (eliminando così ogni residuo dubbio sulla correttezza della decisione della Corte), la vera posta in gioco è “l’indipendenza della politica”, la quale – questa l’idea rivoluzionaria sostenuta – non può essere condizionata dai giudici. Qui si rivela una preoccupante cultura che tende a negare ogni valore a quella regola aurea che si pone a fondamento dello stato di diritto: la soggezione di tutti alla legge.

Non si avvedono i pasdaran del Cavaliere che il ruolo del leader, i voti raccolti dal suo partito, non hanno nulla a che vedere con le vicende processuali. Politica e giurisdizione appartengono a due sfere diverse del vivere civile e l’accertamento dei reati non si calibra a secondo del consenso popolare. Il peso politico esercitato nel governo non può rappresentare una ragione per fermare lo svolgimento dei processi. Possono, in caso, farsi valere degli impedimenti, nelle ipotesi previste dalle norme, che sono in grado di indurre il collegio giudicante a rinviare l’udienza. Nel caso di Berlusconi proprio i tanti impegni collegati alla carica di Presidente del consiglio, al tempo ricoperta, avevano indotto gli avvocati e i giudici a concordare un calendario, in base ad un principio di “leale collaborazione”. La pretesa di poter poi, liberamente e senza obbligo di motivazione, far venir meno l’accordo non può che reggersi su una presunta impunità, una superiorità assoluta della ragione politica sulla funzione giurisdizionale. Ecco allora che si comprende perché si accusa la decisione della Corte, che ha ristabilito la regola di diritto, di aver svolto “un giudizio politico aberrante”. In effetti, entro una logica esclusivamente politica sarebbe stato ben più appropriato riconoscere l’intangibilità del sovrano. Per fortuna la Corte non si è piegata all’assolutismo regio.

Ma quel che lascia più sconcertati è la pretesa che ora viene avanzata. Giacché l’immunità dal processo non è stata ottenuta nelle sedi proprie e il rischio che una sentenza di condanna definitiva è ormai prossimo, ci si rivolge adesso al sistema politico, agli alleati di governo, invocando la corresponsabilità. Il Presidente del Consiglio deve mostrare “più coraggio”, il Presidente Napolitano deve “garantire” il Cavaliere, i parlamentari del Pd non possono liberamente votare sull’ineleggibilità e dovranno – addirittura – “responsabilmente” non dare seguito alla sanzione dell’interdizione ove questa fosse confermata dalla Corte suprema. Si tratta in sostanza di una richiesta di sospensione dello stato di diritto rivolta agli alleati in nome della stabilità del governo delle larghe intese. Una richiesta di protezione che non è ricevibile.