Immaginatevi uno sciatore che «si lancia giù, con gli occhi bendati, per una discesa piena di abeti». Voi siete «in fondo alla discesa» e lo vedete arrivare indenne. Se siete credenti griderete al miracolo, altrimenti penserete a un qualche programma scritto nel genoma «tanto misterioso quanto complesso». In pochi penseranno a una soluzione più semplice e scientificamente più elegante: forse sono partiti «miliardi di sciatori» e uno solo ce l’ha fatta grazie a processi casuali che l’hanno reso adatto al suo ambiente. Questa metafora, tratta da Né dio né genoma di Jean-Jacques Kupiec e Pierre Sonigo (elèuthera 2009), riassume brillantemente la visione che i due autori hanno di una biologia non inficiata dal determinismo essenzialista. Recentemente, elèuthera ha pubblicato La concezione anarchica del vivente (traduzione di Carlo Milani, pp. 256, euro 18). In questo libro, accurato e avvincente, Kupiec, biologo ed epistemologo francese, restituendo alla variabilità aleatoria tutta la sua importanza, amplia l’ontologia darwiniana in modo da fornire una «teoria unificata del vivente» in grado di spiegare sia l’evoluzione delle «specie» che la genesi degli «individui», teoria a cui dà il nome di ontofilogenesi.

Quali sono le argomentazioni a favore della sua proposta teorica?
Molte, ma mi limito a tre. La prima: se c’è un campo in cui la variabilità aleatoria è onnipresente, questo è la biologia! I biologi, però, al posto di riconoscerla come proprietà primaria del vivente, la liquidano come rumore o fluttuazione. La seconda: i naturalisti hanno sempre voluto trovare l’ordine nell’ambito del vivente, hanno rinchiuso i viventi in piccole scatole chiamate «specie». Ma, nonostante i loro sforzi, non esiste una definizione unanime di specie. Le eccezioni sono infinite: i viventi non amano essere rinchiusi in scatole. La terza: le proteine, i costituenti fondamentali del vivente, sono prodotte a partire da processi stocastici e non da istruzioni contenute in un supposto codice genetico. Due cellule non produrranno mai proteine completamente identiche.

Il che la porta ad affermare che «specie» e «individuo» sono invenzioni antropocentriche…
L’aspetto principale della teoria ontofilogenetica è la linea genealogica: la vita è flusso da cui vengono estratte la specie e l’individuo. Entrambe queste nozioni vanno de-essenzializzate con due conseguenze fondamentali. Se riconosciamo che le razze sono astrazioni e che reale è la connessione genealogica che ci unisce, il razzismo non è più concepibile. E lo stesso vale anche per il nostro rapporto con il resto del vivente. L’Uomo con la U maiuscola cade dal piedistallo: non possediamo caratteristiche che ci renderebbero superiori. Gli umani si devono reintegrare nella comunità dei viventi e riconsiderare il loro rapporto con la «natura». I viventi esistono solo in quanto in relazione con il loro ambiente, il che comporta un insieme di dipendenze reciproche e non la lotta hobbesiana di tutti contro tutti sostenuta dal darwinismo sociale.

Quanto conta la visione biologica dominante nell’ambito del paradigma antropocentrico che sta distruggendo il pianeta?
La separazione dei viventi in specie legittima una sorta di apartheid che coinvolge l’intera biosfera. Una volta che i viventi sono stati classificati possono venire gerarchizzati e l’Uomo arrogarsi il diritto di sfruttare la «natura». Un altro risultato dell’essenzialismo genetico è l’idea secondo cui ognuno è ciò che è grazie ai suoi geni. Il che fornisce una sorta di pseudo-legittimazione dell’ordine sociale che viene spacciato per naturale: ognuno occupa un posto ben preciso perché questo è scritto nel Dna. I genetisti si affretteranno a dire che questa è una messa in ridicolo del loro pensiero, che il quadro è ben più complesso, che sanno bene che l’ambiente modula l’attività dei geni, ecc. C’è da chiedersi, però, se questo non sia un discorso per rendere irrefutabile la genetica. Da un lato essa si fonda su leggi precise, secondo cui i geni determinerebbero tutte le caratteristiche dei viventi. Dall’altro lato, la sua versione più morbida chiama in causa l’ambiente. I genetisti possono pertanto passare da un discorso all’altro a seconda delle circostanze. Il che fa della genetica più un’ideologia che una teoria scientifica.

Insomma «più Darwin e meno Mendel»?
Sì, i principi di Darwin valgono anche per il funzionamento «interno» dei viventi. La variazione produce viventi differenti, con differenti probabilità di interagire bene con il loro ambiente e quindi di moltiplicarsi. Lo stesso principio vale anche per le società cellulari: le cellule variano spontaneamente, a seguito dei processi stocastici associati alla sintesi proteica, il che le rende più o meno adatte all’ambiente formato dalle altre cellule. È grazie a questo processo decentralizzato, e non a un presunto programma globale scritto nel genoma, che il vivente si sviluppa. Quanto propongo è un’estensione all’ontogenesi della teoria darwiniana.

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Ma non è ideologica anche una concezione anarchica del vivente?
La biologia è infestata da metafore autoritarie e gerarchiche. E nessuno se ne preoccupa. Se, invece, sulla base di dati empirici si ha l’ardire di introdurre metafore non-autoritarie, gli stessi biologi che ricorrono a metafore reazionarie si strappano le vesti. Sì, lo ammetto, faccio politica. Penso che gli scienziati non possano astrarsi dalla società in cui vivono e che la società influenzi la loro immaginazione e le loro pratiche.

La biologia dovrebbe allora pensare a una nuova ontologia?
La biologia contemporanea è essenzialista e il concetto di «programma genetico» è la versione moderna della «forma» aristotelica. A partire dall’antichità alcuni filosofi hanno invece sviluppato un’ontologia che, al posto di negarla, ha riconosciuto la variabilità come una proprietà primaria degli enti. Eraclito ha affermato che non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume e che l’organizzazione più stupenda è come un mucchio di spazzatura raccolta a casaccio. Penso proprio che la biologia necessiti di un’ontologia di questo tipo.

La morte sta al centro della sua proposta. Un altro punto di divergenza rispetto alla visione biologica dominante?
Certo. In effetti, la comprensione della morte è un altro aspetto su cui la visione biologica dominante è fallace. Milioni di cellule muoiono in continuazione, soprattutto nel corso dello sviluppo embrionale. Per spiegare questo fenomeno i biologi molecolari hanno inventato il concetto di «morte cellulare programmata». Quindi, non solo la vita, ma anche la morte delle tue cellule è scritta nel Dna. Le cellule non muoiono a causa di malfunzionamenti casuali, ma perché la loro morte è pianificata in anticipo. Questo è assurdo e contrario alle conoscenze biologiche attuali. Affinché un programma biologico possa funzionare è necessario che esistano molecole capaci di trasportare informazioni molto precise. Oggi però sappiamo che così non è. Le proteine, per esempio, interagiscono tra loro secondo modalità multiple e non-specifiche. La teoria dell’ontofilogenesi offre un’interpretazione semplice e coerente della morte cellulare. Se le cellule si adattano al loro ambiente interno in maniera stocastica, esiste la possibilità che il processo fallisca e che, in una popolazione di cellule, alcune muoiano in quanto incapaci di adattarsi.

Se gli stessi processi stocastici regolano l’intero vivente che ne è delle nostre classificazioni?
Abbandonare l’essenzialismo non significa abbandonare le classificazioni se queste sono ritenute utili o necessarie. Significa che quando si classifica si deve essere coscienti che lo si sta facendo secondo criteri decisi dall’osservatore e che quindi tale classificazione non riflette un qualche ordine naturale.

Per concludere, cosa ci può dire riguardo la pandemia da coronavirus?
La pandemia è la dimostrazione di quanto ho detto. La presunta barriera di specie è completamente saltata. Si tratta di un virus che si pensava potesse replicarsi solo negli animali. Il virus, però, non è interessato alle nostre classificazioni ed è uscito dalla scatola in cui era stato rinchiuso. Poi si sono sviluppate le varianti con la paura a queste associata. Ma ciò è, ancora una volta, la dimostrazione dell’ubiquità della variazione. I virus variano, come variamo anche noi. Una parola sulle campagne vaccinali: ho ricevuto una doppia dose di vaccino, sto aspettando la terza e consiglio a tutti di fare lo stesso.