Se il lavoro del poeta è scuotere il cielo aspettando che qualche frammento cada, il lavoro dell’archeologo è scuotere la terra, senza imbarazzo del cosmo, aspettando che qualche frammento di cielo appaia», scrive Flaminia Cruciani in Lezioni di immortalità (Mondadori, pp. 168, euro 18). «L’archeologia è più affine alla poesia di quanto possiamo immaginare», continua l’autrice che su questa somiglianza costruisce un libro allo stesso tempo intimo e universale.

ARCHEOLOGA «prestata» alla poesia o poeta dal bagaglio antichistico, Cruciani ha preso parte per lunghi anni agli scavi nel sito di Tell Mardikh, a sud-ovest di Aleppo, che – sotto la direzione di Paolo Matthiae dell’Università La Sapienza di Roma – hanno portato alla scoperta della città di Ebla e di un’inedita e sorprendente cultura dell’Età del Bronzo. Le memorie di quell’esperienza formativa, professionale e umana – raccolte in quaderni fittissimi di aneddoti ed emozioni – riemergono ora che le ricerche sul campo sono interrotte a causa del conflitto siriano.
A muovere Cruciani è il bisogno di ricordare e riscoprire l’archeologia ovvero tornare all’origine della nostra eredità culturale affinché, dopo le distruzioni perpetrate in Medio Oriente dallo Stato Islamico, la Storia non divenga altresì vittima dell’oblio. Se l’Occidente ha un debito di coscienza con le civiltà del Vicino Oriente Antico, questo volume offre una «riparazione», accompagnando il lettore nella regione della Bassa Mesopotamia (attuale Iraq), dove nel IV millennio a.C. – in seno alle più antiche città del mondo – nacque la scrittura. Ciò che sta specialmente a cuore all’autrice è dimostrare che l’archeologia non parla ai morti o dei morti ma, al pari della poesia, svela il mistero di domande primigenie, come quella che riguarda l’immortalità.

PER CRUCIANI, l’archeologia è proprio il momento supremo, il kairos dell’immortalità, che corrisponde all’istante eterno della scoperta. L’antico sopravvive infatti attraverso le rovine e l’archeologo, il quale scruta le viscere della terra, riporta alla luce ciò che il regno degli Inferi teneva nel grembo. Il libro alterna capitoli di carattere storico – dai palazzi di Ebla alle tavolette cuneiformi, da Ištar a Gilgameš – a racconti diaristici, che rievocano le avventure della missione archeologica italiana a Ebla. Il filo che a volte sembra sfuggire è in realtà l’amore dell’autrice per la disciplina archeologica, della quale descrive tecniche, fatiche e responsabilità e il cui obiettivo è restituire il soffio a tracce e reperti.
La ricercatrice che un giorno si ritrova sola sul cantiere a concludere lo scavo di una sepoltura non è diversa dalla bambina che partiva dalla sua casa di Tarquinia in bicicletta con un cucchiaio da cucina per esplorare il sito etrusco di Gravisca. Malgrado le remore di carattere etico, nell’estrarre i resti di uno scheletro, Cruciani ritrova la sostanza poetica di cui si nutriva fin dall’infanzia. Il dialogo che intrattiene con quell’«anima antica» le provoca commozione e le instilla la forza a cui ambiscono i sognatori, siano essi poeti o archeologi: risolvere gli enigmi e far pulsare il recondito.

MA SE L’AUTRICE non avesse dichiarato nell’introduzione la sua doppia «identità», questo libro sarebbe stato comunque un’elegia per la Siria. Nel rimembrare i rituali della natura che si aprono come il sipario di un teatro dall’alto del Tell e nel presentarci il lato generoso e fiero degli abitanti di Mardikh al servizio delle nostre comuni radici, Cruciani proietta la nostalgia nell’abbacinante futuro in cui la bianca Aleppo tornerà ad essere una città «nobile e allegra, perennemente innamorata».