Il 15 novembre 1960 la Rai trasmetteva la prima puntata di Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta. Questo straordinario esperimento televisivo di alfabetizzazione, che proseguì fino al 1968, fu affidato al maestro Alberto Manzi, che rivelò una grande capacità comunicativa partecipativa, empatica. Conoscere tale esperienza può essere utile al dibattito attuale sulla didattica a distanza.
«Negli anni Cinquanta Alberto Manzi – afferma Roberto Farné, docente di didattica generale all’università di Bologna – aveva lavorato alla radio con programmi sulla scuola e poi era passato alla televisione, uno strumento che riteneva di non conoscere bene anche perché sosteneva di non averla in casa. Mi ha raccontato che, quando è nato Non è mai troppo tardi, fu inviato alla Rai per un provino dal suo direttore didattico. Forse lo mandò perché era un maestro scomodo e voleva toglierselo dai piedi, ma fatto sta che andò a fare il provino senza conoscere il mezzo televisivo. Sin dalla sua nascita, la Rai si era interrogata sulle proprie potenzialità educative e aveva realizzato programmi come Telescuola, che prevedeva lezioni tenute da insegnanti con una classe di alunni nello studio televisivo. Per prima cosa, Manzi chiese dei fogli da appendere e iniziò a disegnare. Aveva capito da subito che se si vuol comunicare con persone che sono a distanza bisogna cambiare modalità, altrimenti non si mantiene l’attenzione. Allora disegnava e intanto raccontava, pronunciava parole legate ai disegni. Usava la lavagna luminosa che al tempo era uno strumento di avanguardia. Poi chiamava alcune persone – magari un personaggio televisivo famoso – a fare interventi sui temi che trattava. Capì intuitivamente che la tv era un potente mezzo di comunicazione educativo, a condizione che si sapesse declinare la specificità di quel mezzo sul piano didattico. Insegnare a leggere e scrivere ad adulti analfabeti non era semplice. L’Italia aveva almeno 4 milioni di persone analfabete o molte semianalfabete».

Ci sono stati studi scientifici sul programma, sul metodo, sui risultati di questa straordinaria esperienza?
La grande lacuna è data dal fatto che il progetto non è stato seguito da un’adeguata ricerca scientifica. In realtà, non sappiamo con esattezza quante persone abbiano imparato a leggere e scrivere, quanti abbiano seguito il programma fuori dai Posti di Ascolto Televisivo. Eppure, si è trattato di uno dei più importanti esperimenti di tv educativa. Nel 1965 vinse il premio Onu su indicazione dell’Unesco come miglior programma per la lotta contro l’analfabetismo e, dopo il premio, vennero molti osservatori e ricercatori anche dall’estero. Il programma nasceva sulla base di una convenzione tra il Ministero della pubblica istruzione e la Rai, che metteva a disposizione studi televisivi e programma. Il Ministero metteva il maestro e i 2500 posti di ascolto televisivo diffusi in tutti Italia in circoli ricreativi, parrocchie, associazioni culturali. In questi posti televisivi veniva fornito anche il televisore e i compiti degli allievi venivano inviati alla Rai. Si trattava di una macchina organizzativa straordinaria. Anche molti bambini guardavano la trasmissione perché vedevano in Manzi un maestro diverso. Questo ci dice che le tecnologie non possono essere sostitutive, ma integrative in una modalità che ha bisogno di un luogo fisico, di presenza reale. La scuola non può prescindere da una continuità di presenza e di rapporto insegnante-allievo. Ed è questo sistema integrato, di rete, che ha davvero funzionato.

Ancora oggi, quando si delinea una didattica a distanza integrata con quella in presenza, si fa poco riferimento ad esperienza storiche come quella di Alberto Manzi e «Non è mai troppo tardi».
Manzi aveva una straordinaria capacità empatica che riusciva a trasmettere anche mediante lo schermo. La modalità integrativa vuol dire che il mezzo di comunicazione può avere una funzione straordinaria, ma in relazione alla comunicazione didattica in presenza. Quando pensiamo a Non è mai troppo tardi vediamo il programma, ma non gli insegnanti nei Posti di Ascolto. Quel programma aveva un ruolo di traino e funzionava per questo, riuscendo ad essere attrattivo su temi che non sono di intrattenimento, ma complessi e laboriosi. Ecco, saper fare tv su questo è una capacità straordinaria. Alberto Manzi è stato un grande comunicatore didattico. La parola «didattica» spesso si associa alla noia. Manzi era un insegnante colto, laureato in pedagogia, con studi in ambito biologico. È stato un maestro elementare per oltre trent’anni: scrittore, narratore per l’infanzia, conosceva molto bene Piaget, Vigotskij, Dewey quando erano ancora poco letti. Non ha mai smesso di studiare, di avere interessi, di tenere viva la curiosità che lui definiva «tensione cognitiva», voglia di sapere e di conoscere. Ed è esattamente quello che faceva in tv: tenere alta la voglia di imparare. Preparava i disegni facendo in modo di non far capire subito quello che disegnava. Credo che il peggior insegnante non sia quello autoritario, ma quello noioso.

Cosa ci ha insegnato l’esperienza di didattica a distanza a cui abbiamo fatto ricorso durante il Covid? È migliorabile? Ci sono possibilità di integrazione con la modalità in presenza che noi tutti ci auguriamo sia la solida base della scuola?
Abbiamo conosciuto – me compreso – piattaforme informatiche che abitualmente non utilizzavamo, inventando anche diverse modalità di comunicazione. Abbiamo capito che non avere una rete informatica nazionale è una lacuna culturale e non solo tecnologica. Non se ne può più fare a meno. Ma la normalità della scuola non può essere la didattica a distanza: il presupposto è trovarsi, incontrarsi, fare scuola nella relazione diretta, sapendo usare anche le tecnologie. Posso togliere banchi e lavagne, posso eliminare la tecnologia, ma non posso eliminare la presenza quotidiana continuativa nel tempo tra insegnante e bambini.

Diciamo che se la lontananza presuppone una distanza spaziale, l’alienazione descrive una condizione della mente e anche dell’animo. Ed è questa che va superata …
La cosa più importante è la competenza didattica, la capacità di comunicare, di saper narrare i saperi e di mantenere alta la tensione cognitiva, di valorizzare gli strumenti tecnologici dal punto di vista della qualità dell’insegnamento.

Nella sua esperienza di maestro elementare, Manzi rifiutava un modello di scuola fondato sulla burocrazia, la certificazione e la valutazione. Una scelta etica che gli costò sanzioni disciplinari. Se la scuola enfatizza troppo la certificazione e la valutazione rischia di costituire degli stereotipi, delle forme di giudizio su situazioni che derivano invece da esperienze particolari.
Da questo punto di vista, era un maestro scomodo, ma al tempo stesso molto rispettoso delle istituzioni scolastiche. Non veniva meno ai sui doveri, ma la scuola la faceva a modo suo e sulla base di principi che motivava. È stato inviato alla commissione disciplina 4 o 5 volte perché non dava voti. Non insegnava storia in senso manualistico perché per lui non aveva senso: pensava, infatti, che i bambini non hanno la concezione dello spazio e del tempo storico cosi come i manuali di storia pretendono. Giustificava in modo rigoroso e scientifico le sue divergenze, che non erano certamente derivate da una vaga ribellione. Avrebbe potuto fare la carriera universitaria, ma scelse di fare il maestro elementare perché credeva nella scuola come laboratorio e come ricerca.
Non insegnava per discipline, ma sulla base di campi di esperienza. Quando nella sua scuola aveva a che fare con bambini che presentavano alcune problematiche, si rifiutò di scrivere giudizi e si inventò un timbro con la scritta «Fa quel che può, quel che non può non fa. La provocazione gli costò molto: venne denunciato per omissione di atti di ufficio ed ebbe due mesi di sospensione dallo stipendio. L’anno successivo fece la stessa cosa, ma senza timbro: scritta a mano. Questo io lo definisco un atto di disobbedienza civile.

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Scheda. Le «basi solide» in piena emergenza

Esce oggi l’ebook «Educare a distanza» (Marietti 1820 nella collana digitale iRèfoli, euro 2,99). Circa 9 milioni di studenti sono di ritorno nelle nostre scuole. L’esperienza della didattica a distanza, vissuta in piena emergenza, ci ha posto delle questioni utili a ripensare anche le forme di comunicazione in presenza, base solida della scuola. Nel libro, Paolo Vittoria (docente di pedagogia alla Fderico II di Napoli) ci invita ad elaborarle, approfondendo potenzialità, limiti e contraddizioni dell’educare a distanza via radio, tv, web mediante un confronto aperto con alcuni interlocutori come Marino Sinibaldi, Roberto Farnè, Simone Pieranni.