Era solo questione di tempo. Ma sul fatto che scoppiasse un nuovo caos politico sull’ennesimo intervento legislativo del governo sull’ex Ilva, non vi era alcun dubbio.
Colpa dell’ok all’emendamento, da parte delle commissioni Industria del senato, che prevede la soppressione dell’articolo 14 del decreto SalvaImprese, sul quale l’esecutivo ha posto la fiducia, sulla norma che prevede le tutele legali per gli affittuari e i futuri proprietari del siderurgico di Taranto in attuazione delle condotte del piano Ambientale. In contemporanea però, c’è stata l’approvazione di un ordine del giorno a firma di Partito Democratico, Italia Viva e Autonomie, che ha chiesto al governo di impegnarsi a garantire la continuità produttiva del sito, la tutela dei livelli occupazionali, l’attuazione del Piano ambientale e la possibilità di percorrere anche la strada della decarbonizzazione.

AD ESACERBARE GLI ANIMI, l’intervento del ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli che ieri in aula, pur nominando mai l’azienda, né la soppressione dell’emendamento sull’esimente penale, ha tenuto un intervento che è sembrato andare in direzione totalmente contraria ad ogni ipotesi di chiusura del siderurgico. «Non c’è alcuna volontà politica di acuire crisi aziendali da parte del governo. Posso affermare che non c’è piano industriale per l’economia del Paese, senza un’adeguata produzione siderurgica, che il governo deve garantire», ha detto Patuanelli. «Proprio per questo le commissioni Industria e Commercio, hanno approvato l’ordine del giorno di Pd, Iv e Autonomie, che mi impegno a portare avanti a nome del governo – ha detto ancora il ministro -. Credo che si debba trovare un punto di equilibrio, anche attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie, ma sempre in accordo con chi gestisce gli impianti e non in via unilaterale, tenendo insieme capacità produttiva, tutele occupazionali e rispetto di salute e ambiente: credo oramai sia chiaro a tutti l’impossibilità di procedere sulla strada che ha portato a quei fenomeni di malattia e morte per colpa dell’inquinamento che sono sotto gli occhi di tutti. Bisogna dare risposte certe a tutto il tessuto di Taranto. Anche per questo credo che il Cis (Contratto istituzonale di sviluppo, il tavolo per Taranto, ndr) debba affrontare con più velocità e incisività i temi di cui si occupa. Serve uno sforzo comune perché progetti ed idee diventino realtà per dare risposte ai cittadini Taranto», ha concluso il ministro.

CHE A BREVE INCONTRERÀ l’azienda e i sindacati metalmeccanici, furibondi per l’ennesima inversione ad U dell’esecutivo. In una lettera inviata al ministro, i segretari generali di Fiom, Fim e Uilm hanno definito «senza nessuna credibilità un’azione politica e aziendale che ad un anno di distanza cambia le carte in tavola. Abbiamo da giorni chiesto un incontro con la nuova ad (la tagliatrice di teste Lucia Morselli, ndr) e con il governo che siamo a risollecitare. Se non otterremo conferma di tutti gli impegni presi – concludono – avvieremo al più presto un percorso di mobilitazione».

CERTO È CHE LA VICENDA dell’ex Ilva rischia ora di complicarsi maledettamente. Primo perché il board di ArcelorMittal Italia di fatto non esiste più. Silurato l’ex ad Jehl, la nomina del nuovo ad e presidente del Cda Lucia Morselli, lascia in mano alla super manager i prossimi passi da compiere. La sua mission è chiara: far quadrare i conti di un’azienda che perde 150 milioni di euro a trimestre e che chiuderà il 2019 con 4,8 milioni di tonnellate d’acciaio prodotte. Ben lontano dal limite dei 6 milioni previsti dal contratto di affitto. Ciò significa che alle porte potrebbe esserci un aumento delle unità da porre in cassa integrazione a partire da gennaio (a fronte dei quasi 1.300 in cig dallo scorso luglio); ma soprattutto un ridimensionamento dei programmi industriali.

Con l’azienda che potrebbe cogliere la palla al balzo di fronte ai continui cambiamenti di idee da parte del governo ed il mancato rispetto degli impegni presi dallo stesso. Il che potrebbe spingere la Morselli a chiedere una rivalutazione del prezzo d’acquisto (pari a 1,8 miliardi di euro) e persino un drastico ridimensionamento dell’attività produttiva dell’area a caldo, che ad oggi occupa ben 5 mila lavoratori.