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Canio Loguercio, miniature di sopravvivenzaNel grande pelago della canzone napoletana, attraversato da nevrotici rappettari e bagliori neomelodici, il tre-passaporti Canio Loguercio (lucano di nascita, napoletano d’adozione, romano per domicilio) si è conquistato un suo spazio personale, con una carriera variegata tra azioni teatrali, incursioni audiovisive e happening postmoderni. I suoi tratti distintivi sono un linguaggio appassionato, un dialetto acuminato, aggiornato, quasi reinventato a forza (lontanissimo dallo slang popolare generazione Erasmus di Liberato e più vicino alle derive lirico-teatrali di Enzo Moscato e Mimmo Borrelli) e l’uso della voce, generalmente tufacea e scura, suggerendo una complicità ora angosciosa ora sbrindellata. Dopo diversi album in studio – tra cui Canti, ballate e ipocondrie d’ammore, vincitore della Targa Tenco come miglior album in dialetto, qualche anno fa- ecco il suo primo live, A fil’’e voce, disponibile da qualche giorno in tutti gli store digitali (ma il nostro architetto stagionato potrebbe direbbe forse “in quelle puteche sfunnate ‘ncopp a Internet”), registrato nel corso di una intera giornata nel “Casale di Cristiana”, una suggestiva villa di campagna in un bosco nei pressi di Velletri, passata da Canio con compagni musicisti di alto livello, Giovanna Famulari al violoncello, Ermanno Dodaro al contrabbasso e Massimo Antonietti alla chitarra.

DODICI BRANI completamente acustici, senza ritmica, asciugati e strizzati, resi quasi essenziali, facendo venir fuori quella lingua di sentimento, quell’approccio un po’ nostalgico e rimodulato al grande patrimonio poetico e musicale della tradizione (qui ritroviamo le palpitanti Core ‘ngrato e Maruzzella) che ha nelle vene e nel Dna. “E mo’ te veco ‘nsuonno/oje Vergine Maronna ‘e tante guaje/ e i ‘c’’a faccia ‘nterra/ pe’ tutt’e juorne e nun me lasse maje”.Dodici brani completamente acustici, senza ritmica, asciugati e strizzati, resi quasi essenziali, facendo venir fuori quella lingua di sentimento

UNA SCUDISCIATA di violoncello, la pioggerella di chitarra dalla venature blues, la linea di contrabbasso per E Mo’ che termina improvvisando a cappella come fosse una nenia religiosa, un motivetto che atterra e supplica, come gli altri classici del repertorio del cantautore lucano, da Amaro Ammore a Uva spina, La ballata dell’ipocondria, Ferrarella, Quello che rimane e poi Cumpà, T’aspetto ‘ccà, Luntano ammore, con la triestina Famulari che si lascia travolgere dall’atmosfera empatica collettiva cantando in napoletano e poi con le due anime dannate in coro. «Ma che ne sanno lloro ca nun sanno Ammore?/ cù stommaco e ‘ntestini senza cchiù calore./ Nuje ‘nce ‘mbriacavame e ‘ntrunavame sulo a sentì l’addore/e ll’aria ca cù ‘nu respire s’’nfucava/e ‘nce ‘nfunnevemo ‘e surore ca sapeva d’acqua ‘e mare». Più l’inedita Nuttata senza Dio, scritta da Paolo Varriale, un andamento più sciolto sui lancinanti cordofoni, un paesaggio diverso e conturbante. Tutti brani svelati e arrampicati su un filo di voce, da crooner confidenziale di estrema sobrietà, da caldo chuchotage che t’accarezza dolcemente nel profondo dell’anima.