Dov’è finito il tempo in cui artisti e scrittori erano amici, e chi scriveva non poteva prescindere da un nutrito bagaglio figurativo? Per chi dispera dell’incomunicabilità tra art world e mondo dell’editoria e rimane deluso scoprendo che gran parte dei nostri giovani autori guardino solo a mostre blockbuster è confortante addentrarsi nella raccolta di saggi La felicità delle immagini, il peso delle parole (Bompiani «Overlook», pp. 192, euro 17,00) di Alessandra Sarchi. Chi legge i romanzi di Sarchi ne ammira subito l’uso di inserti figurativi (e non a caso: la scrittrice è storica dell’arte) nella costruzione delle architetture narrative; dipinti e fotografie orientano la lettura, addensando le pagine di significati altrimenti intraducibili. Avvicinarsi alla sua prima prova da saggista risulta dunque doppiamente interessante: proiettati in un’epoca di legami e corrispondenze perduta ma potenzialmente ricca di futuro, vediamo Sarchi riflettere sulle funzioni dell’iconicità nella sua vocazione per via indiretta, analizzando altre voci.
Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati: cinque sguardi, cinque esercizi o «studi d’affezione» dedicati ad autori che suggeriscono un possibile percorso tra letteratura e visivo (Sarchi detesta, a ragione, il termine «visuale» usato come aggettivo) nel Novecento italiano. Lo studio delle fonti lievita in una scrittura per nulla accademica, ereditando il meglio della critica anglosassone: chiarezza dell’espressione e nessuna paura nel soffermarsi su quel che c’è di più importante, i testi, analizzandone ciò che ne determina o meno il valore conoscitivo e la riuscita estetica. E proprio quest’ultima sembra essere al centro del dibattito letterario italiano tra gli anni cinquanta e sessanta, legata a doppio filo a un termine «potente quanto difficile da declinare: realtà».
È un problema espresso, non senza punte d’ambiguità, nel saggio dedicato da Elsa Morante a Beato Angelico in Pro o contro la bomba atomica: il pittore della cristianità rosazzurrina, scrive l’autrice dell’Isola di Arturo, ha il privilegio della bellezza, poiché «la bruttezza non aveva ancora ramificato sulla terra». Se in quest’ottica la realtà equivale alla bellezza della quotidianità, l’irrealtà dell’alienazione verrà materializzata dal suo contrario: naturale guardare alla pittura con avidità, in quanto medium che presuppone una maggiore aderenza alla vita delle forme rispetto alle parole.
In quello stesso giro di anni autori molto diversi tra loro sembrano porsi il medesimo quesito: può l’immateriale realtà delle immagini dotare un testo di maggior presa sul reale, dandone una versione più vera? Che tipo di mondi di finzione vengono generati attraverso i riferimenti iconografici? E in ultimo, per dirla con Calvino: «Sarà che chi si esprime col pennello è sempre più felice di chi si esprime con la penna? O che l’astrattismo e l’informale conservino il privilegio di essere affrancati dal peso diretto o indiretto della parola?». Sarchi racconta in modo avvincente gli episodi salienti di questa contraddittoria battaglia. È una sfida che assume caratteristiche possibili nel nostro Novecento solo grazie al lavorìo critico di Roberto Longhi, preso (esplicitamente o meno) a modello da più d’uno degli autori analizzati. Ma cosa succede quando è la scrittura narrativa, non la critica, a inseguire un mondo fatto di apparenze sensibili? Leggere l’uno di seguito all’altro questi cinque esercizi equivale a veder scorrere davanti a sé cinquant’anni di storia letteraria italiana, sperimentando come termini quali realtà e irrealtà, storia e visione arrivino a cambiare inaspettatamente di segno.
Diversi per generazione e poetiche, tutti e cinque gli autori presi in esame hanno messo in scena la figura di chi osservando la realtà la traduce in immagini, «o, per converso, del rovesciare immagini sul mondo si fa carico come d’una missione». È una linea aperta nel libro dal giovane Moravia. Già negli Indifferenti i dispositivi della visione codificati dalla letteratura rinascimentale — finestre, specchi, ritratti — vengono svuotati dall’interno, divenendo spazi d’incomunicabilità: i volti si tramutano in maschere, e più che svelare gli specchi offuscano. I pochi squarci sullo spazio esterno vengono inghiottiti in una visione dominata dalla noia, che anni più tardi Dino, pittore fallito protagonista dell’omonimo romanzo, definirà significativamente «quella specie di inadeguatezza o insufficienza o scarsità della realtà». Ma è negli autori più vicini al magistero longhiano che si cela il nodo problematico, ovvero la difficoltà del trasferimento a livello letterario del principio delle equivalenze verbali.
Dove la prosa di Longhi raggiunge peso e spessore inediti, diventando – lo ha spiegato bene Garboli – «altro», la pesanteur insita nella prosa dei gemelli discordi Pasolini e Volponi viene amplificata dalle ecfrasi, come se le immagini erodessero il guizzo della scrittura dall’interno: di qui la necessità espressa dal primo di tornare a uno «sguardo vergine» (così in Appendice a Bestemmia), e la progressiva impossibilità di mettere in contatto cultura e industria tematizzata dai riferimenti pittorici del secondo, via via sempre più indiretti e meno nobili. Quello del pericolo della pietrificazione della prosa — e dei diversi manierismi derivati dall’eccesso di scrittura implicato dal diaframma figurativo — è uno dei temi più interessanti del libro, e meriterebbe ulteriori approfondimenti in sede critica.
La seconda parte di La felicità delle immagini sembra attraversata da una spinta centrifuga, che vedrà altri autori rispondere al problema del peso delle parole spostando la riflessione dall’oggetto della visione alla natura dello sguardo: è così nel Calvino di Palomar e ancor più nel Celati della trilogia padana. Con la sua poetica delle apparenze l’autore di Narratori delle pianure finirà per colpire il cuore del dettato morantiano; il suo fraseggio naturale, scrive Sarchi, è un «invito ad accettare di essere sommersi dall’irrealtà, e a cercare come il pittore Menini di cogliere quei momenti in cui una visione più autentica, fra un interstizio e l’altro, balugina dentro di noi, prima ancora che fuori».