Dopo l’inaugurazione della mostra Portrait. Paolo Volponi e il suo mondo (visitabile fino al 6 gennaio) che nella Sala degli Stemmi associa una settantina di opere a firma di due autentici fuoriclasse, quali Mario Dondero e Tullio Pericoli, al critico letterario Massimo Onofri, che mai aveva conosciuto de visu Dondero, e cioè il ragazzo che porta magnificamente i suoi ottantacinque anni e nulla ha perduto della sua istintiva socievolezza come della sua umanità, a Onofri appunto è venuto l’estro di improvvisare uno degli epigrammi dove sa fondere in maniera fulminea un carattere intellettuale e insieme una divisa etica: «Non si è scrittori per davvero/ se non si è entrati nel mondo di Dondero».

Lo aveva favorito il calore dell’ambiente (con la compagna di Mario, Laura, e alcuni vecchi amici come lo scrittore Angelo Ferracuti, di fatto curatore della mostra, l’assessore alla cultura della provincia Giuseppe Buondonno, che aveva appena annunciato la costituzione dell’Archivio del maestro, il fotografo Umberto Bufalini, e ne mancavano purtroppo altri due, Ennio Brilli e Diego Marzoni), in una trattoria del centro storico vicinissima alla casa in vicolo Zara, una specie di antro céliniano o di caverna delle meraviglie, che Dondero ha scelto una trentina d’anni fa per necessario antipode alla casa di Parigi, la seconda delle sole due dimore o anzi stazioni di posta che possa tollerare un pendolarismo come il suo, molto prossimo al senso della ubiquità. Perché Dondero ha fatto più volte il giro del mondo e il suo occhio di fotografo umanista si è posato (ha dato forma ai gesti, ai pensieri e all’esserci) su una quantità infinita di persone. E anche di scrittori, ma certamente non solo di scrittori, perché Dondero, come sanno i lettori di questo giornale, è un fotografo di esseri umani tout court, uomini che lottano, lavorano, vivono o semplicemente provano a farlo, se più di una volta ha dichiarato: «Deve sempre rimanere chiaro che per me fotografare non è mai stato l’interesse principale. A me le foto interessano come collante delle relazioni umane, o come testimonianza delle situazioni. A me le persone interessano perché esistono». Questo rimane vero alla lettera ma non smentisce affatto l’epigramma di Onofri se è vero, altrettanto, che Dondero è stato, ad esempio, il primo fotografo a ritrarre Samuel Beckett e, in gruppo, per uno scatto celeberrimo del ’59, l’intera squadra del Nouveau Roman.

Epicentro della mostra fermana, giusto in occasione del «Premio Volponi», è il grande romanziere urbinate, suo amico di sempre, l’autore del ciclo che va da Memoriale (’62) a Le mosche del capitale (’89), il testimone di un realismo critico, sconvolto ai limiti dell’effrazione linguistico-stilistica,che ha saputo cogliere con lucidità e violenza profetica, tanto i costi umani e sociali del cosiddetto Boom economico quanto il quadro corrusco, gravido mutazioni sconvolgenti, di quella che adesso si chiama globalizzazione. Non più di tre o quattro (databili fra gli anni sessanta e settanta, scanditi nel biancoenero che ne esalta in primo piano la figura schietta, atticciata, di franca immediatezza) dai ritratti di Volponi si dirama una sequenza di figure diverse ma intramate da una sola dominante, vale a dire il rango intellettuale e la passione civile. Tutte meriterebbero una citazione, per la loro singolarità che ogni volta coincide con la normalità di un gesto quotidiano, talora usuale fino alla inapparenza: Pasolini in casa sua con la madre Susanna, presi di infilata e quasi in osmosi; Corrado Stajano, fuori dal metrò nella folla di Parigi; un giovanissimo Edoardo Sanguineti, sul balcone di casa, mentre i figli giocano con le bolle di sapone; Elio Pagliarani nei primi anni sessanta, con tanto di occhiali affumicati e papillon; Nanni Balestrini mentre scruta dall’alto chissà quale movimento in strada; un Gadda solenne, scurissimo, nei suoi ultimi anni, e un Enzo Siciliano invece molto giovane, non meno scuro e pensieroso; infine un grande storico della cultura materiale, Sergio Anselmi, ritratto nella sua Senigallia e in un sito che non potrebbe essergli più consono, gli Amici del Molo, il cui motto, «Qui non s’usan complimenti, si vive in libertà», sembra riferito all’indole dell’amico Mario Dondero. Il quale si è dispiaciuto che all’inaugurazione di Portrait non potesse essere presente il deuteragonista, cioè il pittore Pericoli, le cui tavole sono ospitate nel vano adiacente della Sala degli Stemmi.

I ritratti di Pericoli sono in realtà dei paesaggi umani e dei paesaggi hanno la campitura molecolare che si percepisce da lontano ma, via via che ci si accosta, evidenzia dettagli impensabili e non meno necessari dentro un reticolo minuto che del soggetto in primo piano non rappresenta tanto lo sfondo ambientale quanto la proiezione artistica e/o intellettuale. In effetti i ritratti di Pericoli sono virtualmente anamorfici, quasi delle scomposizioni (il grado zero di una effigie, col suo ambiente, i suoi spazi, i suoi oggetti) che tuttavia impongono a chi guarda un gesto spontaneo di ricomposizione e, dunque, di interpretazione del soggetto dipinto. Nel bel libro biografico di Silvia Ballestra (Le colline di fronte. Un viaggio intorno alla vita di Tullio Pericoli, Rizzoli 2011), è menzionata, in proposito, una dichiarazione del pittore: «Lavoro molto spesso con delle fotografie, per i ritratti. (…) Le distendo sul tavolo. Le esamino una a una, comparandole. Prendo un blocco di carta leggermente trasparente, e faccio il primo schizzo del ritratto…». È probabile che alcuni di questi archetipi fotografici siano donderiani, specie la tavola dedicata a Volponi, il logo della mostra, con lo scrittore in primo piano, gli occhi socchiusi in un atto di estrema concentrazione psicofisica, e sullo sfondo la sua Urbino stilizzata in una ideale citazione da Piero della Francesca o dall’amatissimo Federico Barocci. Se alcuni ritratti qui richiamano i volti già fotografati nell’altra metà della mostra (Sanguineti, la Morante, Stajano, Parise, Tabucchi, Pasolini in maglietta), la scelta di Pericoli, che è un pittore lirico, va in direzione della poesia con implicito richiamo al fatto che Volponi medesimo fu poeta di notevole valore nell’incipit come nell’explicit della propria parabola, dai testi giovanili pubblicati in Officina e confluiti in Le porte dell’Appennino (’60) agli esiti tardi, di ispirazione esplicitamente politica, poi raccolti in Con testo a fronte (’86). Ecco infatti, più volte, un Franco Fortini aggettante e quasi paradossalmente ilare, ma anche due maestri di recente perduti, Giovanni Giudici e Giovanni Raboni. Si esce dalla mostra intitolata Portrait con un senso di speciale soddisfazione e persino di quella sottile euforia cui sembra mutamente alludere Angelo Ferracuti quando scrive, nella brossura del «Premio Volponi», che Dondero e Pericoli sono artisti entrambi testimoni del «paesaggio antropologico contemporaneo»: delle loro straordinarie cartografie, oggi più di ieri, in tempi così calamitosi, infatti sentiamo l’urgenza, la necessità.