In occasione del settantesimo compleanno di Cesare Segre (era il 15 dicembre del 1998 e nell’Aula Foscoliana a Pavia si stava presentando il volume Ecdotica e comparatistica romanze) Corrado Stajano a proposito del suo grande amico disse alcune parole (ora in L’Italia ferita, Cinemazero 2010) che ne richiamavano la divisa etica e intellettuale: «L’idea di filologia come strumento da usare per raggiungere la verità è essenziale a spiegare perché Segre non è rimasto chiuso in una torre, ma è venuto fuori, con tutte le sue curiosità e il suo impegno morale a vedere, a cercar di capire quel che succede nelle strade».

Perché l’esistenza di uno dei maggiori filologi del secolo, e basterebbero le edizioni critiche della Chanson de Roland e del Furioso a dirne il rango anche tra i profani, si è nutrita di un senso civico mantenuto sottotraccia nel lavoro scientifico ma sempre riemerso sia nella militanza giornalistica, niente affatto occasionale, sia negli interventi pubblici in fasi cruciali della storia repubblicana. Perché l’adolescente ebreo costretto a rifugiarsi nel convento dei Salesiani di Avigliana per scampare alle retate delle Brigate Nere, il ragazzo che ebbe annientata in Auschwitz gran parte della sua famiglia, mai ha derogato dagli ideali di libertà ed eguaglianza, richiamandoli ogni volta con la sobrietà tipica del suo stile, e ancora nel ’94 promosse su «Belfagor» insieme con Raffaele Fiengo e lo stesso Stajano un Manifesto democratico 1994 presago di quanto avrebbe disastrosamente comportato per il paese e la sua civile convivenza l’ascesa del magnate e anzi autocrate televisivo cui si sarebbe intitolato il ventennio seguente.

Va aggiunto che l’impegno di Segre non corrisponde a una tarda occorrenza di ciò che nel dopoguerra fu detto engagement ma consiste nel testimoniare «un’etica della convivenza umana». Così la definisce Paolo Di Stefano, curatore del volume appassionante, bellissimo, Diario civile (il Saggiatore «La Cultura», pp. 309, euro 26,00), che raccoglie una novantina di articoli scegliendoli fra i 481 pubblicati da Segre sul Corriere della Sera fra il 1988 e il 2013, l’anno della sua morte. Va qui rammentato che ha alle spalle dal ’65 una cospicua collaborazione prima con La Stampa, poi con Il Giorno e «Panorama»; si aggiunga la presenza su fogli scientifici, culminante nella fondazione, con d’Arco Silvio Avalle, Maria Corti e Dante Isella di «Strumenti critici» (1966), la rivista cui si deve l’introduzione dello strutturalismo in Italia. Uno strutturalismo che integrava e affinava la filologia secolare, disciplina storica per eccellenza, di cui Segre si era rivelato maestro, in primis, fin da quando Gianfranco Contini lo aveva chiamato giovanissimo a lavorare nel cantiere dei Poeti del Duecento (Ricciardi 1960).

Anche negli articoli per il Corriere Segre prodiga la sua immensa dottrina, sempre vigilata da uno sguardo di esattezza cartesiana (e Pier Vincenzo Mengaldo avrebbe visto in lui un critico «iperrazionalista»); utilizza un linguaggio piano, esente da inutili tecnicismi che peraltro tende a limitare pure nelle scritture specialistiche rigettando il latinorum accademico e rimanendo dell’idea che «il piacere della letteratura è una conquista che presuppone intelligenza e adeguati ‘strumenti critici’», come rileva Mauro Bersani nel profilo contenuto in La critica letteraria e il ‘Corriere della Sera’ (vol. 2, 1945-1992, Fondazione CDS 2013).

Ora, questo Diario civile è ordinabile per macroargomenti: l’eredità sempre incombente del fascismo e, come in uno specchio ustorio, della Shoah, i mutamenti culturali e linguistici della società italiana, gli annosi problemi della scuola e dell’università, infine la memoria di compagni di via e di grandi maestri scomparsi. Segre non crede ovviamente a un ritorno del fascismo come tale, ma è persuaso che del fascismo possano tornare, riaggregati in forma inedita, gli spettri oscurantisti, antidemocratici e autoritari che gli erano propri. E sa cogliere, al passaggio di secolo, sia il clima di banalizzazione e ormai di assoluzione del ventennio sia l’affermarsi di pratiche intellettuali irrazionalistiche, antiscientifiche e non esenti da ciarlataneria: come nel caso del cosiddetto decostruzionismo e cioè un soggettivismo che tende all’arbitrio in quanto «ha trasformato specialisti di letteratura in maestri del paradosso, in pervicaci cacciatori di ribaltamenti e smitizzazioni» (3/8/’88); a costoro, colui che ci ha insegnato a leggere Cent’anni di solitudine e Soledades di Antonio Machado, risponde che «finché la letteratura avrà qualcosa da dire agli uomini, la critica dovrà essere pronta a fiancheggiarla con le forze migliori» (17/12/’93). È per questo motivo che Segre per una volta alza la voce e imputa alla Adelphi uno stolto revisionismo ovvero il revival fascista e razzista – sono parole sue – che ha indotto l’editore a pescare nelle fogne un libro «immondo, fanatico, delirante» come quello di Léon Bloy, Dagli ebrei la salvezza (Adelphi 1994), a proposito del quale scrive in clausola che «Hitler, dal profondo dell’inferno, manderà i suoi fax di ringraziamento» (29/7/’94).

Ma il nucleo pulsante o meglio si direbbe il nervo scoperto di Diario civile è il problema dell’università e, più generalmente, della scuola. Segre non guarda al passato ma fissa, talora con sgomento, il presente. Non è sdegnato dal mutare degli interessi e dei riferimenti come dalla presenza dei nuovi supporti elettronici ma si interroga, semmai, sul senso attuale della scuola, sulla destinazione di un sapere che vede sia depauperato da incuria e protervia dei pubblici poteri sia deprivato della componente essenziale che è la storia, del suo evolvere alternando progetto e conflitto, progresso e conati di reazione. E per lui l’antefatto della scuola neoliberale è nella professionalizzazione precoce degli studenti, perché «quanto più si anticipa la specializzazione, tanto più si producono individui limitati, incapaci di essere intellettualmente e oggettivamente liberi» (11/10’92). È nel vacuo de-storicizzato dell’Italia presente che Segre vede insieme umiliata la coscienza e l’agire medesimo dei docenti e degli scolari nel frattempo chiamati, con ipocrisia e cinismo, a sanare le ferite procurate da quella stessa società che sta loro sottraendo ogni stima, appoggio, risorsa. (E non è affatto un caso che Segre avesse a suo tempo intitolato Testi nella storia una antologia scolastica redatta con Clelia Martignoni).

Storia ma anche memoria e, nella fattispecie, ritratti di grandi studiosi che Segre scolpisce in tombeaux come al solito di esemplare nettezza e misura, da Contini a Roman Jakobson e Lévi-Strauss, da Carlo Dionisotti a Jurij Lotman, con particolare riguardo ai nomi di Giuseppe Billanovich, Avalle, Isella e Corti, valorosi colleghi di una disciplina che egli ha esercitato fino all’ultimo vicino infatti a una grande filologa romanza, sua moglie Maria Luisa Meneghetti. Riguardo al porgere di Segre, alla sua pagina leggibilissima e senza mai uno sbalzo, lineare e persino implacabile nella sua logica discorsiva, il curatore Di Stefano ne assimila il carattere all’autocontrollo, all’understatement che cela un filo di ironia: per Cesare Segre, in effetti, prima che una disciplina la filologia era un prerequisito necessario, la sua divisa morale e intellettuale.