Ha raccontato Paul Scott che da bambino trascorreva i lunghi pomeriggi autunnali nella sua casa di Southgate a preparare film. Disegnava a china su strisce di carta oleata e le incollava insieme passandole poi attraverso un proiettore costruito con una scatola di tabacco, una lampadina, le lenti di un binocolo. Inseriva riquadri con i dialoghi; per i close-up ricalcava le facce delle star dalle riviste. La famiglia riunita assisteva alla prima durante le feste di Natale. Forse, ha aggiunto, doveva proprio a quei film se più tardi inventare trame e personaggi per i temi gli venne naturale. Ancora da ragazzo si immaginava regista più che narratore. Ogni sogno adolescenziale si sarebbe comunque infranto per il tracollo economico subito dal padre, un illustratore pubblicitario che nel 1934 lo obbligò a lasciare la scuola e a impiegarsi come contabile. Aveva quattordici anni. Come la degradazione da caporale a soldato semplice inflittagli nel 1941, durante l’addestramento militare in Cornovaglia, il forzato abbandono degli studi restò per lui una ferita rimarginata male, un’infezione annidata in profondità ma pronta a esplodere. Affronterà la vita con il disagio di sentirsi derubato della propria identità, sbattuto fuori dal destino che aveva fantasticato per sé.
Soffia un identico disagio dentro le sontuose volute e le ramificate cavità del suo capolavoro, The Raj Quartet: ancora più pungente nel secondo volume della tetralogia, Il giorno dello scorpione, uscito in Inghilterra nel 1968, tradotto in italiano da Roberta Rambelli per Garzanti nel 1986 e adesso proposto da Fazi, come già lo scorso anno Il gioiello della corona, nella versione di Stefano Bortolussi («Le strade», pp. 595, € 20,00). Per quanto l’indiano anglicizzato Hari Kumar e il sovrintendente di polizia Ronald Merrick, qui diventato capitano dell’esercito mentre l’altro è ancora detenuto, appaiano figure specularmente contrapposte dalla trama, vittima il primo e carnefice il secondo, entrambi portano il segno della medesima ferita: li accomuna un desiderio frustrato di appartenenza, la sofferenza psichica di un divario impossibile da colmare, l’esperienza corrosiva di aspirazioni respinte cui Merrick oppone la violenza, Hari la rassegnazione. Illuminando nella polarizzazione della storia le due facce della coscienza autoriale, così come l’oscurità e la doppiezza custodite da ogni cuore umano, rappresentano con il loro disturbante colloquio uno dei temi angolari dello straordinario, sempre più seducente, ardimentoso edificio narrativo realizzato da Scott.
Perdita di identità, disappartenenza, straniamento affiorano a livelli differenti di consapevolezza in tutti i personaggi di Il giorno dello scorpione, dove l’autore, libero ormai dalla necessità di assicurare al suo racconto lo sfondo di una corretta rappresentazione storica e geografica dell’India negli ultimi anni del Raj, può dedicarsi a sondare i caratteri più in profondità, raggiungendo sulla pagina una più alta temperatura espressiva. Da lady Manners al conte Bronowsky, dalla vecchia insegnante Barbie Batchelor ai freschi sposini Susan e Teddie Bingham, al nababbo di Mirat, al giovane Ahmed Kasim e a suo padre Mohammed Ali, un tempo ministro e ora incarcerato: ha senso che il romanzo, cominciando dalla titolazione delle sue parti, riproponga spazi circoscritti e linee di separazione da non attraversare, siano un ospedale o un carcere o un forte, una porta chiusa, una pista nella giungla, il sentiero battuto nella sabbia da un cavallo, il binario di un treno. «A volte puoi cancellare la linea e ritracciarla in un punto diverso, avvicinandola o allontanandola. Ma hai bisogno che ci sia» dichiara Merrick in uno dei dialoghi del testo. Come il cerchio di fuoco da cui è circondato lo scorpione che si staglia nella memoria di Sarah Layton, la ragazza inglese nata in India ma educata in Inghilterra, dunque doppiamente spatriata, cui Scott affida il doppio compito di voce riflessiva dell’autore e occhio giudicante del lettore. Acrobazia tanto rischiosa quanto fluida che attesta l’opzione stilisticamente modernista adottata dall’autore malgrado la forma in apparenza classica imposta al suo romanzo.
«Gli scorpioni sono molto sensibili al calore, ecco perché vivono sotto le pietre. La pioggia li spinge all’aperto. Secondo un’antica credenza, se circondati da un anello di fuoco si suicidavano. In realtà sono accartocciati dal caldo, e quando dardeggiano la coda non si stanno suicidando, ma cercano di attaccare» scriveva Scott nella primavera 1967 a Dorothy Ganapathy, l’amica che nel ’64 lo aveva ospitato a Bombay durante quel viaggio di ritorno – il primo dopo i tre anni di guerra trascorsi in India – che aveva sbloccato la sua storia di scrittore consentendogli di trovare la sua voce. E precisava: «Più o meno questo è accaduto agli inglesi in India. Alla fine troppe pressioni li hanno spinti fuori dai loro spazi – e sono stati bruciati dai fuochi che avevano appiccato a se stessi». Quando consegnò Il gioiello della corona l’autore non pensava che ne avrebbe scritto un seguito; eppure già nell’aprile 1966, tre mesi prima che uscisse, intraprese la stesura di Il giorno dello scorpione. Era sicuro che sarebbe stato il secondo pannello di un dittico. Saranno necessari altri due volumi, ancora nove anni di ricerche d’archivio e di tormentose riscritture, perché la vicenda possa compiersi nel 1947 con il frettoloso abbandono dell’India da parte degli inglesi: quel paese era stato per Scott così a lungo e brutalmente sfruttato da fargli sentire che la sua sorte riguardava ogni inglese, poiché le ossa e la carne di ogni inglese erano state nutrite dal suo fertile suolo.
Convinto che qualsiasi scrittore abbia bisogno di una «metafora» per narrare la realtà e che nessuna realtà narrata possa separarsi dalla «corrente morale della storia», quattro anni dopo avere lasciato il suo impiego di agente letterario per diventare narratore a tempo pieno, Scott trova nell’India conosciuta a vent’anni la sua personale, grande metafora. Ciò che gli preme raccontare è del resto molto lontano dagli interessi dei ventenni che in quel 1968 affollano il primo festival di Wight o fanno la coda allo Shaftesbury Theatre per assistere alla prima di Hair? «Se scrivo dell’Anglo-India nel 1942 non lo faccio soltanto perché ritengo quel periodo vivo e drammatico, ma perché mi permette di esprimere la pienezza di quello che penso e che sento del mondo in cui abito» dichiarava quell’anno in una conferenza alla Royal Society of Literature. Del proprio mondo Scott sente la discriminazione e l’ingiustizia, il razzismo, la rigida separazione di classe. Soprattutto la violenza.
Servendosi del dialogo quanto del monologo interiore, di diari, di lettere scritte e immaginate, rievocando da prospettive diverse gli eventi narrati nel primo tempo del quartetto per completarne il significato, Scott scalpella I giorni dello scorpione come una gemma sfaccettata in cui è racchiuso un cuore liquido; il ritmo vira dall’affrettato al maestoso; la lingua è nitida ma sinuosa, cangiante. Intenzionalmente esatta, stringe insieme lo spazio sterminato del luogo che racconta e la profondità della coscienza dei suoi protagonisti. Immalinconiscono perciò, ancora di più in questo volume, le non rare distonie della traduzione italiana. Perché un generale di brigata deve trasformarsi in «brigadiere generale» e un generale di divisione in «maggior generale»? Un animale è la stessa cosa di una «montatura»? Sopra un occhio cieco viene indossata una «pezza» o una benda? Siamo «circonfusi» o avvolti dal silenzio? La bicicletta è munita di «luce» o di fanale? Né è possibile enumerare gli inserti e le espunzioni arbitrarie della frase, le distorsioni di senso (la «straordinarietà della loro impresa» equivale alla perfezione del loro comune tentativo?), gli scivoloni della grammatica. Il romanzo, diceva Scott, somiglia a una cipolla: non perché a sbucciarlo faccia piangere, ma perché tolto un velo se ne trova sempre un altro. Voleva dire che il romanzo non dovrebbe offrire risposte, piuttosto sollevare domande. Resta sottinteso che il lettore ha bisogno di comprenderle.