Il lucano Rocco Scotellaro (1923-1953) visse i suoi trent’anni con un’intensità spasmodica, senza un attimo di respiro, come qualche volta càpita a chi sente (ovviamente non sapendolo) di non avere molto tempo davanti a sé. Apprendistato e maturità in lui si fusero fino a confondersi e a farsi corpo comune con quella che è uso chiamare vita attiva – una vita fatta di sentimenti forti e profondi, di tempestose tensioni, di acuta e mai stemperata osservazione della realtà a lui prossima e di militanza civile e politica.

Tricarico, di cui fu com’è noto sindaco, era il suo mondo elettivo e il centro focale della sua ispirazione poetica e letteraria che al lettore si rivelò di colpo, e postuma, nel 1954, l’anno successivo alla morte, grazie alle poesie raccolte nel volume È fatto giorno, pubblicato nello «Specchio» mondadoriano per le cure e con la prefazione di Carlo Levi, e a Contadini del Sud, una ricerca sul campo troncata quasi sul nascere dall’improvvisa scomparsa dell’autore, che Laterza mandò alle stampe con una introduzione di Manlio Rossi-Doria. Poi, a seguire, apparvero, sempre per l’editore barese e sempre con l’amorevole accompagnamento di un testo di Levi, i racconti che vanno a comporre L’uva puttanella e, infine, nel 1978, le poesie di Margherite e rosolacci, ugualmente presso Mondadori.

Questo corpus di scritture diverse eppure così unitarie e potremmo dire univoche lo ritroviamo adesso – ed è un’occasione eccellente e preziosa per farne nel caso la conoscenza – in un solo, nutrito e nutriente volume che appunto contiene Tutte le opere (Mondadori «Oscar Moderni Baobab», pp. XX-800, e 28,00) curato, oltre che dal benemerito Franco Vitelli, da Giulia Dell’Aquila e da Sebastiano Martelli – insomma, un’edizione che si può dire definitiva, arricchita com’è di ampi apparati critici e filologici e da un’accurata ricostruzione delle avventure e spesso delle traversie editoriali di ognuno dei quattro singoli libri, tra promesse, contratti disattesi, rifiuti, esitazioni, entusiasmi, reticenze e resistenze.

Ciò che infatti e ogni volta impressiona, tornando a quel contesto e osservandolo dall’indifferente e noncurante oggi, è l’asprezza del dibattito politico-culturale, la tranciante durezza delle rispettive posizioni, il continuo riproporsi di dolorose lacerazioni e di rotture drammatiche. Anche Scotellaro, assai vicino agli azionisti di Giustizia e libertà e alla trincea socialista, non ne fu risparmiato proprio a partire dai suoi primi due libri e in specie dopo l’assegnazione del Premio Viareggio. Basti pensare che ne scrissero, tra gli altri, Pietro Nenni, Giorgio Napolitano, Franco Antonicelli, Carlo Muscetta, Italo Calvino e Carlo Salinari.

Volendo provare a riassumere la questione, forse conviene lasciare la parola a Giacomo Debenedetti: «Ci sono due modi di conoscere il mondo: o, per essere più esatti, due diversi atteggiamenti della volontà e bisogno di conoscerlo. Si vuole conoscerlo per capirlo, o si vuole conoscerlo per modificarlo. Il primo modo è quello che chiameremo storico-passivo, intesa la storia come accettazione di dato di fatto, dell’accadere nella forma del già accaduto; il secondo modo lo chiameremo illuministico, vale a dire di “conoscere per modificare”». La domanda che subito venne posta fu precisamente la seguente: in che modo Scotellaro intese, nell’opera sua, «conoscere il mondo»? O, ancora, con maggiore pertinenza tematica: c’è, in Scotellaro, l’idea di un meridione d’Italia fissato una volta e per sempre e dunque immutabile, fuori dal tempo e dalla storia, alla luce di quell’insistere sulla sua natura mitica e magica, ancestrale e tutta poetica e contemplativa degli uomini, delle cose, del paesaggio? È significativo, a tal proposito, rileggere un saggio di quell’infaticabile e implacabile gendarme dell’ortodossia che fu Mario Alicata (allora pubblicato su «Cronache meridionali» e più tardi, nel 1968, incluso nel volume Saggi letterari, pubblicato dal Saggiatore nella collana «La Cultura» diretta da Cesare Garboli), laddove si sottolineava la tendenza a «considerare il mezzogiorno, sia da parte di certi autori, sia da parte di certi lettori, come un enigma ancora da decifrare, come una terra arcana tutta da studiare e tutta da rivelare nella sua “essenza” nascosta e nelle sue “apparenze” molteplici, insomma, per usare una efficacissima immagine di Gramsci, come un lontano “Giappone”».

Il bersaglio del dirigente comunista erano le piegature «misticheggianti» e «metafisiche» di molte rappresentazioni del meridione contadino. Ma la questione, ovviamente, era mal posta e, per ciò che riguardava Scotellaro (e lo stesso Levi), senza appello ingiusta e sbagliata ed equivoca, se poi Alicata medesimo sostiene con buone ragioni che la lingua del poeta di Tricarico non utilizza affatto cadenze «contadine» ovvero «popolari», quanto piuttosto afferenti a «una tradizione letteraria aristocratica», ad esempio e innanzitutto Leonardo Sinisgalli e il cosiddetto ermetismo meridionale: va ricordato che, fino a quando Scotellaro fu in vita e andò scrivendo, di Sinisgalli erano apparsi 18 poesie (1936), Campi Elisi ’39) e Vidi le muse (’43); di Libero De Libero Solstizio (’34), Proverbi (’38), Eclisse (’40) ed Epigrammi (’42); di Alfonso Gatto, infine, Isola (’32), Morto ai paesi (’37) e Poesie nel ’43). È questo il versante entro il quale situarlo mentre lo si legge, così liberandolo (per usare un’espressione di Geno Pampaloni) «da compiti troppo solenni» e, aggiungiamo, troppo gravosi,