Sicuramente il Festival delle colline, giunto alla 21° edizione, è una delle poche manifestazioni che ancora assolve alle funzioni fondamentali di un festival «ideale». È molto attento al nuovo, verso il quale si sporge, a volte perfino rischiando, ma dando alla compagnia o al singolo artista una chance che può farlo crescere per il futuro; poi segue il lavoro non solo nei momenti cruciali di scrittura e debutto, ma anche (magari per un intero anno) lungo la gestazione della creazione, offrendogli opportunità e sponde; infine un aspetto non secondario: quello di essere un festival urbano, destinato a un pubblico molto più vasto rispetto ad altre situazioni, e quindi modulando il programma in modo che ai diversi spettacoli anche i pubblici finiscano con l’incrociarsi e mescolarsi. Sembrano banalità, ma è difficile trovare riuniti tutti questi caratteri, tanto più dentro un quadro cittadino che è notoriamente ricco di offerta, e quindi con la facile tentazione della rivalità. Nelle Colline invece entrano a vario titolo praticamente tutte le istituzioni torinesi, e Isabella Lagattolla e Sergio Ariotti che ne sono responsabili, partendo da un budget non particolarmente lussuoso, sono riusciti a convincere e coinvolgere perfino le fondazioni bancarie.

Potenza della qualità.
Tutto questo per giustificare anche la parzialità quasi «casuale» di questa cronaca: bisognerebbe rimanere a Torino per tutte le tre settimane della durata del festival (si conclude martedì prossimo con titoli di sicuro interesse)per apprezzare, e spesso anche «conoscere» se non scoprire, nuovi talenti o pensieri ragguardevoli in campo teatrale. Intanto, lungo le direttrici tracciate quest’anno (il femminile, l’identità di genere, e Pasolini) hanno cominciato ad apparire lavori che vale la pena approfondire. Alcuni anche già ampiamente conosciuti (il bellissimo MDLSX dei Motus , performance che è valsa alla interprete Silvia Calderoni molti riconoscimenti), altri totalmente nuovi e sorprendenti. Come il geniale Geppetto e Geppetto di Tindaro Granata (di cui il manifesto ha raccontato la settimana scorsa) su entusiasmi e problemi di una spericolata coppia maschile.

Ma sorprendente è anche un’impresa all’apparenza titanica, come quella di Licia Lanera di Fibre parallele, che nella scrittura pasoliniana per la scena (dopo aver sempre lavorato su testi propri) è andata a scegliere e a lavorare su Orgia, testo complesso che scava in maniera non pacifica nei rapporti e nell’essenza di uomo e donna. Un testo quasi «speculare», perché a un denso monologo maschile «risponde» (ma si potrebbe anche affermare «ignorandolo») uno femminile e funereo, e ancora uno maschile che si illumina di luce torbida e poi tragica nell’incontro con una giovanissima prostituta. Un testo complesso si diceva, che proprio a Torino aveva debuttato, con la regia dell’autore all’alba del ’68, con i corpi contrapposti di una carismatica Laura Betti e di Luigi Mezzanotte.

Dopo tanti decenni, Licia Lanera lo riacchiappa per intero, impossessandosi di entrambi i ruoli, maschile e femminile, e lasciando spazio solo all’apparizione della ragazzina. L’attrice, forse anche per l’esperienza fatta con Ronconi, è molto maturata, scopre mezzi interpretativi prima forse oscurati dall’impeto drammatico, e dà con quei testi un itinerario di pensiero ineludibile, doloroso eppure sicuro.

Si potrebbe sottilizzare sul fatto che non vi sia stacco tangibile tra maschio e femmina, ma se non è una scelta volontaria (e quindi in qualche modo riduttiva) ci sarà modo nelle repliche di mettere a punto quella contrapposizione per nulla conciliante. Perché poi il disegno pasoliniano di quello scontro tra i sessi, porta dritto alla questione del potere, rispetto al quale non si può che soccombere, in una prospettiva assolutamente pessimista e funebre: lei già in posa mortuaria, lui impiccato in abiti femminili.

Ancor più raggelata è stata del resto l’apparizione del gruppo greco Blitz. Erano apparsi qualche tempo fa con il loro primo spettacolo, sorprendendo l’intera Europa con il ritmo senza fiato di atti, incontri, illusioni e suggestioni che mostravano chiaramente in controluce come si poteva reagire e sopravvivere a una situazione come quella ellenica a un passo dal baratro. Ora la visione è quella di un futuro prossimo, in cui cambiano tempi e stati d’animo , dopo che un evento traumatico è stato in qualche modo subito.

La griglia di lettura di quella situazione l’hanno trovata in Cechov, come fin dal titolo è chiaro: Vanja, dieci anni dopo. I movimenti si son rallentati, la visione dilatata, il passato che pesa come citazione del classico (ci sono nel testo anche estratti da Goethe). Come nella commedia di Cechov la stagione dei furori e degli innamoramenti ha lasciato soli tre personaggi, un uomo e due donne. Che nell’alternanza e sovrapposizione del testo drammatico con le citazioni, trovano la via d’uscita per la loro sopravvivenza. Un terreno fascinoso, anche se di difficile orientamento per chi si inoltri per l’incognita storia ventura.