Una pubblicità della Fiat Brasile, che passa alla TV in questi giorni di Confederation Cup, dice “Vem pra rua, vem pra rua, porque a rua é a maior arquibancada do Brasil!” (scendi in strada, scendi in strada, che è il miglior spalto da stadio del Brasile!).

Parole profetiche, ma in senso assai diverso da quello atteso.

La presunta festa pre-mondiali, i cui match sono cominciati in questi giorni nel gigante sudamericano, è sotto choc. In un paese dove il calcio è una religione interclassista e una forma di riscatto sociale, i brasiliani, sorprendendo il mondo intero, più che gli stadi stanno riempendo le piazze.

Il movimento non si arresta. Continua in molti centri e soprattutto a San Paolo: qui, in vari punti della città, continuano i momenti di tensione, mentre il malcontento nei confronti del PT, il partito di Lula e dell’attuale presidentessa Dilma, esce sempre più allo scoperto: i manifestanti hanno bruciato bandiere del partito e pupazzi a foggia dei suoi leader.

Il grande salto di qualità il movimento lo ha fatto il 17, al suo sesto giorno.

E che giorno!

A San Paolo, la maggiore metropoli brasiliana, dove il movimento è sorto, 65 mila persone, divise in tre tronconi, hanno preso il controllo della città e, per la prima volta, di fronte all’ampiezza della manifestazione, la polizia si è limitata ad accompagnare i cortei, composti da studenti e lavoratori. Le autorità, come del resto la stampa, hanno a denti stretti dovuto mutare il loro atteggiamento di intransigenza, iniziando il dialogo. La capacità organizzativa dimostrata dai manifestanti – che distribuivano fiori e insistevano sul carattere pacifico della protesta – ha impressionato gli osservatori, tanto più se si considera che i partiti e le burocrazie sindacali sono praticamente assenti e totalmente colti di sorpresa.

A Rio la manifestazione nel centro della città ha raccolto ben centomila persone, che dopo un lungo corteo si sono riunite di fronte all’Assemblea Legislativa, dove vi sono stati scontri con la polizia e lanci di molotov.

Scontri vi sono stati anche a Belo Horizonte, dove il corteo ha riunito ventimila presenze.

A Brasilia, la capitale, cinquemila manifestanti hanno invaso – per la prima volta nella storia del Brasile – gli edifici governativi, stazionando sul tetto del Congresso Nazionale progettato dal “comunista” Oscar Niemeyer.

Diecimila a Belem, tremila a Maceió, cinque mila a Salvador de Bahia, cinque mila a Curitiba, diecimila a Porto Alegre. Questi i numeri delle altre principali città.

Cominciato come una protesta contro l’aumento del prezzo degli autobus urbani, è chiaro che il movimento sta assumendo un significato politico che si amplia ogni giorno mano mano che ne cresce l’estensione: gli slogan urlati dai manifestanti, da nord a sud del paese, sono contro le carenze del trasporto pubblico, della sanità, contro l’aumento dei prezzi – negli ultimi mesi l’inflazione ha rialzato selvaggiamente la testa – contro la corruzione dilagante in tutte le sfere dell’amministrazione dello stato e della politica, così come nel partito oggi al governo, coinvolto in una serie ininterrotta di scandali, contro lo spreco di denaro pubblico in opere i cui cantieri vedono lievitare i costi in corso d’opera e che non terminano mai. E persino – udite udite! contro le ingenti somme investite per la preparazione dei mondiali del 2014 – stadi, infrastrutture – e tolti, come affermano i manifestanti, ai necessari investimenti nei campi dell’educazione e della sanità, tuttora estremamente al di sotto degli standard internazionali di una paese che si sente ormai appartenente al primo mondo.

Il 18 giugno, altro salto di qualità: a San Paolo cinquantamila persone si sono di nuovo concentrate nel centro città, dividendosi in due tronconi, uno dei quali ha ingaggiato duri scontro con la polizia di fronte al palazzo del Municipio. Ma mentre nella grandi capitali il movimento viveva un momento di relativa contrazione e riflessione, esso investiva il Brasile profondo. Non si contano i centri medi e piccoli in cui esso è dilagato, , al punto che possiamo dire che interessa oramai numeri di persone a sei zeri.

Uno dei centri entrati ieri nel fiume in piena è proprio Florianopolis, da dove scriviamo.

Certo, i diecimila manifestanti di questa “provincia”, non possono essere paragonati ai centomila di Rio e ai 65 mila di San Paolo. E non solo nei numeri. Nella ricca e “bianca” capitale della stato di Santa Caterina il malessere e la rabbia sono lontani dal raggiungere i livelli delle capitali maggiori. E infatti la manifestazione – che giunge a bloccare il ponte che unisce il lato continentale e quello insulare della città, paralizzando il traffico – si svolge pacificamente.

Ma con questi distinguo i giovani che hanno invaso –con grande energia, entusiasmo e determinazione – il centro, sono in gran parte gli stessi delle altre città brasiliane e, osservandoli da vicino, possiamo trarre qualche elemento di giudizio per la comprensione del movimento. Giovani scolarizzati certo, provenienti per lo più – è l’impressione di chi scrive –della cosiddetta “classe C”, ovvero lo strato “basso” di quella che in Brasile è definita “classe media” , quello dei figli dei lavoratori, che ha frequentato e frequenta le disastrate scuole pubbliche, e che solo ora ha cominciato ad aver accesso all’istruzione universitaria e alla cultura, ma che continua a scontare un gap rispetto ai ceti medi superiori.

[do action=”quote” autore=”Un volantino dei manifestanti”]“Il trasporto è il mezzo che garantisce l’accesso a tutti gli altri diritti fondamentali della popolazione, come salute, educazione, tempo libero. Una città esiste solo per chi in essa può sportarsi liberamente”[/do]

Prendiamo le parole d’ordine: quella che ha visto le origini del movimento, il servizio di trasporto pubblico e gratuito, spiega un volantino, deve essere considerata come parte di una visione ampia: “Il trasporto è il mezzo che garantisce l’accesso a tutti gli altri diritti fondamentali della popolazione, come salute, educazione, tempo libero. […] Una città esiste solo per chi in essa può sportarsi liberamente”.

Spiccano poi le contestazioni dei mondiali di calcio, a cui si contrappongono i bisogni di assistenza medica e di istruzione. Parecchi gli slogan contro la corruzione e le ruberie dei politici, tema caldissimo e attualissimo della politica brasiliana, che vede la popolarità del PT, il partito di Lula, ancora grande durante le ultime elezioni presidenziali, vinte da Dilma, scossa da una serie di scandali e malversazioni, oltre che dal pesante rallentamento della lunga fase di sviluppo economico e dalla ripresa temibile dell’inflazione.

La rivendicazione d’indipendenza dai partiti è netta e manifesta, e questo, così come il ruolo in esso di internet e delle reti sociali, accomuna questo movimento a quello degli indignados in Spagna e di Occupy negli Usa. Questa somiglianza formale è verificata anche dalla presenza di numerose maschere di anonymous.

Ma l’analogia termina qui. Certo, Florianopolis, è, rispetto a San Paolo, Rio e Belo Horizonte, “ai confini dell’impero”, ma è pur sempre la capitale dello stato di Santa Catarina, uno centri trainanti del capitalismo brasiliano, insieme a quelli di San Paolo, di Rio Grande do Sul e del Paraná ed è quindi a suo modo rappresentativa. Ebbene, abbondano le bandiere del Brasile, e si sente cantare l’inno della nazionale brasiliana, “sou brasilhero, com muito orgulho”. Nei cartelli levati in alto dai manifestanti, scritte come “scusate per il disturbo, stiamo cambiando il Brasile”, “Il gigante si è svegliato”. “Ordine e progresso”. I giovani, intervistati, rilasciano dichiarazioni contro i politici e la corruzione, ma non contro il padronato o l’idea dello sviluppo capitalistico. Né si sente parlare di lavoratori. L’eroe è “o povo”, il popolo. E dalle finestre degli edifici essi ricevono i calorosi applausi della popolazione, che palesemente simpatizza per loro. Nessun accenno, purtroppo, ai fatti di Istanbul, che pur hanno con questi notevoli punti di contatto.

Insomma, sembra, più che – come in Occidente – contro la crisi e la perdita del loro futuro, i giovani brasiliani stiano lottando con la speranza e la convinzione che il loro futuro possa e debba essere consolidato e migliorato, e alla “decrescita felice” essi sembrano preferire una crescita riformata e resa più giusta, democratica e partecipativa. Almeno per il momento. Ma certo le dimensioni nazionali e generali del movimento stanno lasciando un’impronta la cui evoluzione potrebbe essere imprevedibile.

Che a Fortaleza la contestazione contro la Confederation Cup e i mondiali del prossimo anno si sia concretizzata in momenti di grande tensione e scontri davanti allo stadio prima della partita Brasile-Messico, è un sintomo di cambiamento di estremo interesse in un paese la cui identità nessuno finora ancora aveva mai immaginato potesse dissociarsi dalla “bola”. E allora “Vem pra rua, vem pra rua, porque a rua é a maior arquibancada do Brasil!” Oltre che turchi, siamo tutti brasiliani!