L’ultima volta era stata necessaria una missione di pace lunga 14 anni, tra il 2003 e il 2017. Ora, a distanza di quattro anni, forze di sicurezza australiane tornano a mettere i piedi alle Isole Salomone, per cercare di evitare che i disordini di questi giorni si trasformino in un conflitto civile.

Da giorni ormai la capitale Honiara è in preda a una rivolta. Ieri i manifestanti, in gran parte provenienti dalla vicina isola di Malaita, hanno cercato di assediare la residenza personale del primo ministro Manasseh Sogavare, dando fuoco a un edificio limitrofo. Diversi negozi della capitale sono stati distrutti ed è stato preso d’assalto anche il parlamento. La polizia ha risposto con gas lacrimogeni, arresti e spari. Tanto che si sono diffuse voci, smentite dal governo, di vittime. Quello che è certo è che le autorità hanno imposto un coprifuoco a tempo indefinito tra le sette di sera e le sei del mattino.

Il caos di questi giorni è stato messo in relazione alla Cina. Da anni le Isole Salomone sono entrate nell’orbita di Pechino. Nel 2017 un progetto di cavi sottomarini è stato interrotto dall’intervento dell’Australia, che si è sobbarcata le spese di un progetto alternativo pur di rallentare l’avanzata cinese nel Pacifico meridionale, sua tradizionale area d’influenza.

Ma il rapporto era avviato, e nel 2019 Honiara ha stabilito relazioni diplomatiche ufficiali con Pechino, rompendo quelle con Taipei. Una scelta arrivata in concomitanza delle elezioni del 2019, vinte dal partito di Sogavare, e che è stata imitata poche settimane dopo da un altro paese dell’area, Kiribati. La decisione non è mai stata accettata da Malaita, la provincia più popolosa dell’arcipelago, che intrattiene rapporti privilegiati con gli Usa, che forniscono aiuti economici diretti all’amministrazione locale. Non è un caso che durante la pandemia Malaita abbia ricevuto mascherine e altri aiuti sanitari da Taiwan, tra le proteste del governo centrale e di Pechino.

Le relazioni con la Cina sono un argomento divisivo da tempo: nel 2006 la Chinatown di Honiara era stata teatro di proteste per le voci di interferenze cinesi (e taiwanesi) sulle elezioni. Lo stesso quartiere è stato coinvolto nelle proteste di questi giorni, ma il menù della rivolta va ben al di là dell’ingrediente cinese. La tensione atavica tra l’isola della capitale e quella di Malaita deriva da motivazioni etniche, spesso sfociate in scontri armati come negli anni che hanno preceduto la missione di pace australiana. Di base, resta il malcontento di Malaita sulla suddivisione delle risorse economiche da parte del governo centrale. Dal 2020 la provincia spinge per un referendum di indipendenza, respinto dall’esecutivo. A tutto questo si aggiunge il tema geopolitico, che non è causa ma sintomo delle divisioni interne.

Sogavare, al potere a più riprese dal 2000, resiste alle richieste di dimissioni e sostiene che dietro la rivolta ci siano «interferenze straniere». Versione a cui sembra credere anche Pechino. Condannando le violenze e chiedendo la tutela della sicurezza dei cittadini e delle imprese cinesi, il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian ha detto che «tutti i tentativi di interrompere il normale sviluppo delle relazioni tra Cina e Isole Salomone sono futili».

Intanto, a Pechino e Taipei si osservano con attenzione anche le elezioni presidenziali di domani in Honduras, uno dei 15 paesi rimasti a riconoscere ufficialmente Taiwan. La candidata di sinistra Xiomara Castro, tra le favorite, ha già dichiarato che in caso di vittoria prenderà in considerazione il salto della barricata.