Urne aperte oggi in Siria per le elezioni presidenziali, tra chiamate al boicottaggio lanciate dalle opposizioni e la (quasi) certezza di una riconferma del presidente Assad per il terzo mandato consecutivo. Sullo sfondo un Paese allo stremo, che piange 160mila morti in tre anni di guerra civile, tre milioni di profughi all’estero e cinque milioni di rifugiati interni. Le opposizioni gridano alla farsa, definendo il voto di oggi il tentativo di Damasco di garantirsi un plebiscito da utilizzare come piede di porco contro i ribelli.

La tornata elettorale è cominciata il 28 maggio con il voto dei siriani residenti all’estero e l’aperto ostruzionismo dei Paesi anti-Assad: il voto è stato impedito in Francia, Belgio, Germania e Paesi del Golfo, mentre negli Stati Uniti e in Canada le ambasciate di Damasco hanno chiuso per motivi di sicurezza. I governi occidentali hanno palesemente tentato di ostacolare il voto, definendolo «una frode della democrazia».

C’è da chiedersi: perché tanta paura delle elezioni siriane, se considerate una mera farsa? La minaccia è il voto stesso e non il risultato finale, la partecipazione dei siriani, la scheda elettorale che finisce nell’urna, le file davanti ai seggi. Questo farebbe crollare il mito della “rivoluzione dei ribelli”, gruppi moderati e estremisti, laici e islamisti, annaffiati dai milioni di dollari e dalle armi dell’Occidente e del Golfo. Ed infatti, nonostante l’ostruzionismo, il 95% dei siriani all’estero avrebbe espresso la propria preferenza, secondo i dati della Commissione Elettorale.

Peggiore la situazione in Libano. Migliaia coloro che hanno affollato le strade intorno all’ambasciata siriana di Beirut, paralizzando il traffico e costringendo le autorità libanesi a dispiegare le forze dell’ordine per timore di scontri.

Ma la vera violenza è stata quella commessa dai vertici del Paese dei Cedri: oltre ai pestaggi denunciati da alcuni elettori siriani, a preoccupare è la minaccia del ministro dell’Informazione libanese, Omran al-Zoubi, che ieri ha annunciato che i rifugiati che faranno ritorno in Siria per votare perderanno il loro status di profughi. Una possibilità che andrebbe a colpire 500mila siriani e subito criticata da Damasco, a cui Zoubi ha risposto con un ben poco diplomatico «Sono affari nostri».

Sul piano politico, a contendere la poltrona presidenziale ad Assad sono l’esponente comunista Maher al Hajjar e l’uomo d’affari Hassan al Nouri. A seguito di una modifica costituzionale del 2012, le elezioni non saranno a partito unico, previsione rafforzata dalla nuova legge elettorale approvata a marzo e che apre al multipartitismo (pur vietando la candidatura di chi gode di doppia cittadinanza, clausola che secondo i critici del regime taglia fuori gli oppositori all’estero).

Scontata la vittoria di Assad, la cui campagna elettorale “Sawa” (Insieme) è partita a inizio maggio in concomitanza con la riconquista della città ribelle di Homs, strappata al controllo dell’Esercito Libero Siriano e dei gruppi islamisti ISIL e Fronte al-Nusra. Poco spazio resta ai due sconosciuti contendenti i cui flebili sforzi elettorali si sono concentrati su questione economica e lotta alla corruzione.

E proprio l’economia resta il terreno più accidentato: la guerra civile ha provocato la perdita di 144 miliardi di dollari. Secondo una ricerca del Syrian Center for Policy Reseach, realizzata insieme alle Nazioni Unite, a monte sta «la radicale rimappatura demografica siriana, con la perdita del 12% della popolazione e lo spostamento del 45% dei residenti siriani».

La Siria si è trasformata in un Paese povero e deindustrializzato, con un aumento vertiginoso di inflazione e disoccupazione (oggi al 54,3%): tre siriani su quattro vivono in miseria, incapaci di reperire i beni di prima necessità. Dati a cui si aggiunge quello drammatico della perdita di vite umane, 160mila persone uccise dal conflitto in corso e 360mila ferite o rese invalide.

La conseguenza di una tale crisi sarà più visibile nei prossimi anni, quando la Siria dovrà ricostruirsi sulle macerie del suo stato sociale, dei suoi sistemi educativi e sanitari, delle sue infrastrutture e, soprattutto, delle sue spaccature interne.