Il calcio del passato torna spesso nella memoria di coloro che lo hanno vissuto attraverso televisione o allo stadio, quasi in contrapposizione a quello di oggi. C’è chi per lavoro lo ha vissuto vicino ai campioni di quel calcio, viaggiando con loro per raccontare ai lettori del proprio giornale i resoconti delle trasferte, le grandi sfide europee della Champions, la partita scudetto, la vittoria dei mondiali di calcio dell’82. Di solito si sceglie la squadra del cuore per raccontare le imprese calcistiche che hanno segnato un periodo felice.

Darwin Pastorin va controcorrente e sceglie un giocatore per raccontare un’epoca, sceglie Gaetano Scirea per raccontare il calcio e il calciatore, simbolo di uno stile, dentro e fuori dal campo, che non esiste più, soprattutto se confrontato con il divismo sfrenato di oggi, tutto social e immagine. Lo fa nel trentesimo anniversario della morte di un grande campione con un libro Scirea. Il Gentiluomo (Perrone euro 15 ),e ci ricorda, lui figlio di emigrati nato a San Paolo del Brasile, che quel ragazzo arrivato alla Juve, proveniva dalla provincia, un paese dell’hinterland milanese, Cernusco sul Naviglio, ed era figlio di un operaio della Pirelli. I figli degli operai, anche se giocavano nella Juve degli Agnelli, portavano con sé la cultura operaia che avevano introiettato in famiglia, la semplicità, la correttezza, il rispetto per coloro che lavoravano in fabbrica e Gaetano Scirea quei valori li ha espressi anche quando alzò la coppa ai mondiali del 1982. A conferma di quello stile Darwin Pastorin, cronista di lungo corso, ci ricorda che Scirea ringraziava sempre i giornalisti dopo le interviste, anche se erano loro a chiedergli pareri e pronostici.

A volte, in quell’epoca di campioni a portata di mano, tra le trasferte e le chiacchierate prima dell’allenamento, si diventava amici e si finiva per conoscere moglie e figli dei calciatori, capitava perfino di andare a casa loro: «Ricordo perfettamente, Gaetano, quei giorni della tua gloria. Quei giorni che ti vedevano campione tra i campioni, nella Juventus di Trapattoni e Platini, di Paolo Rossi dal viso smunto e di Cabrini, il bell’Antonio. Erano giorni felici anche per noi cronisti di campo, attenti alla notizia, ma soprattutto al lato umano. E nascevano tra noi amicizie e simpatie, scambi di opinioni sui nostri diversi mondi. Avevamo un contatto diretto, faccia a faccia.

Oggi le società decidono chi deve parlare e cosa deve dire, e i giocatori, diventati troppo ricchi, si preoccupano solo delle esigenze dello sponsor. In quei giorni, ci davamo un appuntamento un’ora prima dell’allenamento e l’intervista scivolava sulle cose di calcio e sulle cose della vita, sul prossimo avversario e sui sogni da coltivare, parlavamo dei nostri problemi, delle nostre difficoltà, non c’erano filtri e maschere, c’eravamo solo noi, uno di fronte all’altro, con la nostra semplice voglia di comunicare».

Erano altri tempi e Darwin Pastorin sembra rimpiangerli attraverso un commovente ritratto che traccia di Scirea, tale da farcelo vivere ancora, come se fossimo spettatori di una loro amichevole conversazione davanti al caminetto. Nel raccontare episodi e aneddoti, il cronista-tifoso bianconero tocca le corde più profonde del lettore con una scrittura poetica, a tratti Scirea sembra essere il Giovanni Arpino del rettangolo verde, lo scrittore piemontese tanto amato da Pastorin.

Affiorano nelle righe dedicate al grande campione della Juve e della nazionale, strappato alla vita da un incidente stradale in Polonia trent’anni fa, perché come vice di Dino Zoff, allora allenatore bianconero, andò a visionare il Gòrnik Zabrze, avversaria della Juventus in coppa Uefa, altri grandi nomi come il capitano nerazzurro e della nazionale Giacinto Facchetti e il brasiliano Socrates, profondo estimatore di Antonio Gramsci, ritenuti al pari di Scirea patrimonio del calcio italiano e internazionale, e quelli degli scrittori Osvaldo Soriano ed Edoardo Galeano, entrambi collaboratori del manifesto, dei quali è stato amico.

Pastorin delinea il contesto sociale degli anni in cui adolescente frequentava la curva bianconera, ricorda il suo primo giorno di scuola alle superiori segnato dall’aggressione dei fascisti. Quel giorno fu tumultuoso, come quello in cui era a Napoli per seguire la squadra partenopea per il quotidiano Tuttosport del quale fu vicedirettore, e la sera precedente in albergo, mentre vedeva la partita Brasile-Cile, un suo collega gli comunicò che Gaetano Scirea era morto: «Quando parlavi dell’Heysel ti venivano le lacrime agli occhi. Anche in quella stanza d’albergo a Napoli, quel 3 settembre del 1989, mi sono venute in mente le tue lacrime mentre parlavi di quella notte a Bruxelles, dove il calcio smarrì l’ultima sua purezza, dove il pallone mostrò la sua faccia terribile e violenta… Gaetano Scirea è entrato non solo nella leggenda del calcio, il nostro sport più popolare, ma è diventato un modo di dire, un personaggio letterario, un simbolo esistenziale».