Dal Diario di Scipione, alla data del 28 marzo 1932: «15 sedici diciassette diciotto diciannove venti ventuno ventidue ventitre ventiquattro venticinque ventisei ventisette ventotto. 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15». La serie di numeri in successione è un elenco di giorni. In lettere, i giorni dal quindici al ventotto febbraio. Poi, in cifre, quelli dal sedici al trentuno marzo. Infine i primi quindici di aprile. Un giorno dopo l’altro. Quasi a volersi garantire che quest’oggi abbia un domani. Scipione apre così una sua poesia: «Il giorno è andato lontano/e io mi sento un uomo di grande statura». E così la chiude: «Dio, poni il tuo braccio sopra la mia testa/e fa’ che io veda il giorno di domani».

Scipione dall’autunno del 1931 si trova ad Arco, ricoverato nel Sanatorio San Pancrazio. Vi morirà ventinovenne il 9 novembre 1933. Il Sanatorio, aveva scritto a Enrico Falqui, «non sai come ti annulla, come ti fa scomparire (…) La mia vita scorre tranquilla ed è quasi come se non vivessi». Le poesie di Scipione sono dieci. Otto non recano indicazione di data. Due sono datate: ‘28 settembre 1928’, Estate; e ‘1930’, Solstizio. Nel 1938 Falqui ne cura la pubblicazione presso Scheiwiller con il titolo Le civette gridano. Nel 1942 Falqui, aggiungendo alle poesie alcune lettere e frammentarie pagine di diario, compone un volumetto che intitola Carte segrete, e Luciano Anceschi accoglie le dieci poesie in Antologia dei Lirici Nuovi. Quelle «sue splendide dieci poesie», ha detto Amelia Rosselli.

Per la pittura di Scipione, Emilio Cecchi parlò di «sguardi morituri» e Leonardo Sinisgalli avvertì nella sua poesia una «vena funebre». Vi sarebbe dunque una reciproca corrispondenza tra le opere di pittura e i testi poetici di Scipione. Ma, pur ammettendo un’unica musa alla quale egli resta fedele, pare giusto chiedersi secondo quali diversi modi la musa lo ispira, come diversamente gli «ditta dentro» e come, quindi, si dipana e si istituisce la sua formulazione pittorica a fronte della poetica, e viceversa. Non è questione di particolare interesse constatare attinenze e affinità che testimonino tautologicamente dell’unico autore. Parrebbe, invece, ben altrimenti proficuo un intendimento critico inteso a differenziare, a dirimere. A mettere in risalto gli elementi, non solo non sovrapponibili e non coincidenti della poetica che Scipione pur elabora su temi e situazioni omogenei, ma le soluzioni tutt’affatto diverse che ne scaturiscono. Dico soluzioni d’ordine formale, che riguardano i codici compositivi e la disposizione, la scansione ritmica e le congiunzioni tematiche svolte qui per immagine, lì per allusione e per analogia. E la misura variata delle loro partizioni e collocazioni. Valga un sommario confronto. Osserviamo La piovra (I molluschi, Pierina è arrivata in una grande città), un olio su tavola (cm. 60×71) del 1929. Tre anguille e un polpo si accampano intrecciati su una tovaglia di rasone ordinario, rosso mattone, cangiante e lucido. Una piuma di struzzo rosa, in alto, ne replica in minor tono cromatico e lineare i serpentini accordi sinuosi. Prima che, sospinta, cada a terra – spenta, dilavata – la fotografia d’un volto di donna è offesa dagli inerti tentacoli e circuita da quei viscidi contatti. Hai la repellente sensazione d’una ridda laida condotta da quei pesci serpentiformi. Sarabanda peccaminosa che t’afferra, ti trascina. Non hai scampo.

Leggiamo ora questi cinque versi di Tutto ci abbandona…: «Le membra del giovane sono belle,/la sua mente è chiara e serena,/ma i vizi degli altri scrivono in nero/e nei laghi degli occhi/nuotano le anguille cattive». Qui Scipione affida al nero delle anguille la cifra d’una cattiveria libera, espressa come naturale movimento armonico, flottante in laghi che son occhi aperti su latitudini pulite, luminose, trasparenti. Se cedi alla cattiveria che ti afferra, ti rendi preda del peccato. Ma se allontani la cattiveria, una volta vinta la guardi con distacco e consideri che «ogni cosa creata trova il suo modo d’essere. Se non ne ha, essa sparisce, non è vitale». Al contrario, Scipione aggiunge: «Se riesce a vivere un giorno, essa vivrà per l’eternità».