È il settore con più concorrenza: tariffe sempre più basse, condizioni di lavoro sempre peggiori e posti di lavoro sempre più a rischio. Un vero «stillicidio occupazionale» che va avanti da vent’anni. E ora che molte imprese (Tim, Vodafone, WindTre, British Telecom, Ericsson) sono strangolate dal circolo vizioso tariffe basse-costi da tagliare, di posti a rischio ce ne sono altri 20 mila, circa un sesto dei 120 mila attuali in Italia.

Oggi si ferma l’intero settore delle Tlc per lo sciopero generale proclamato unitariamente da Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom. Sciopero per l’intera giornata lavorativa e manifestazione nazionale a Roma, in piazza Santi Apostoli, dalle ore 10,30, in cui esprimere «contrarietà a: i piani di scorporo di industria e servizi delle principali telco; le drammatiche ricadute occupazionali che ne conseguirebbero; ritardi allarmanti sugli obiettivi fissati dal Pnrr per banda ultralarga e reti 5G; il conseguente digital divide a cui sarebbe condannato il paese; le minacce di dumping contrattuale delle aziende di customer service in outsourcing (il nuovo nome dei vecchi “call center», ndr), ossia i reiterati tentativi di fuoriuscire dal contratto collettivo nazionale delle Tlc per comprimere salari e diritti».

«I LAVORATORI SONO CONSAPEVOLI di una situazione sempre più insostenibile – spiega il segretario nazionale della Slc Cgil Riccardo Saccone – dunque ci attendiamo una buona riuscita dello sciopero e della manifestazione».

La situazione più grave è certamente per Tim. L’ex monopolista di stato vive da decenni una crisi che sembra irrisolvibile. La privatizzazione non ha mai trovato una governance stabile e il debito accumulato ha ormai superato la cifra monstre di 23 miliardi. Per i 41 mila lavoratori del gruppo le prospettive sono sempre più fosche. Fallito e cancellato il Memorandum dell’agosto del 2020 che prevedeva la nascita di una public company come nel resto d’Europa, la promessa elettorale del governo Meloni – il cosiddetto piano Minerva con un’Opa totalitaria dell’attuale sottosegretario di Fdi Alessio Butti – non si è per niente realizzata. Lo spezzatino deciso dal nuovo ad Labriola con il consenso dei francesi di Vivendi prevede la creazione di tre società diverse: quella della rete (Netco) con circa 22 mila dipendenti, la Serviceco che gestirà i servizi di telefonia con circa 12-15 mila dipendenti e la Enterprise che guiderà le innovazioni con circa 5 mila dipendenti.

MA SE QUESTI ULTIMI possono considerare il loro posto di lavoro solido, gli altri dipendenti sono a rischio. Per la rete, nonostante il cablaggio in fibra del paese sia in ritardo – le risorse del Pnrr dovevano servire per terminarlo del 2027-28 – , finito questo processo, i numeri degli occupati dovrebbero scendere di molto. Ancora peggiori le prospettive per i lavoratori della società di servizi che verrà schiacciata dalla concorrenza e dalle innovazioni tecnologiche. La stima di esuberi per il gruppo Tim si aggira infatti sui 10 mila lavoratori: in pratica uno su quattro.

Non vanno meglio le cose nei call center. «Le aziende continuano a minacciare l’uscita dal contratto delle Telecomunicazioni – denunciano Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom – . Nonostante le conquiste sindacali sulla «Clausola sociale» per gestire i cambi appalto e le tabelle ministeriali per il costo del lavoro minimo, ancora troppi committenti, a cominciare dalla pubblica amministrazione, ricorrono a fornitori che applicano contratti “pirata”».

IN REALTÀ, MOLTI APPALTI poi utilizzano contratti non pirata: quello delle Cooperative sociali o multiservizi con condizioni salariali molto più basse e un dumping simili.

In tutto questo i sindacati chiedono che il governo Meloni li ascolti e non si concentri nel tifo nella battaglia su Tim: Butti con Cdp, il ministro Giorgetti con gli americani di Kkr. «Da settimane si vocifera di un decreto Tlc – spiega Saccone – che prevede risorse per le aziende energivore e un abbassamento dei livelli dell’elettro magnetismo per favorire l’installazione del 5G, nonché l’allargamento a 7 anni dei contratti di espansione per favorire i pre-pensionamenti. Ma si tratta di misure che non affrontano i problemi strutturali del settore e sembrano fatte apposta solo per dare una boccata d’ossigeno alle imprese», conclude Saccone.