Negli ultimi due anni la casa editrice statunitense Wiley – una delle più grandi al mondo in campo accademico – ha dovuto ritirare ben undicimila pubblicazioni scientifiche dalle sue riviste perché si trattava di vere e proprie truffe. In molti casi, articoli scritti da intelligenze artificiali con dati inventati o che avevano aggirato con la frode il tradizionale sistema di valutazione delle pubblicazioni chiamato «peer review», cioè revisione tra pari, che prevede che ogni studio venga esaminato da altri esperti del campo. Le riviste su cui erano apparsi gli articoli ritirati erano edite sotto il marchio Hindawi, una divisione della casa madre specializzata in «open access». Si chiamano così gli studi pubblicati su pagamento degli autori e che le riviste accettano di rendere disponibili gratuitamente ai lettori.

PER LA COMUNITÀ scientifica, lo scandalo Hindawi è uno dei più gravi di sempre. Le riviste scientifiche svolgono il ruolo fondamentale di selezionare e divulgare le ricerche di qualità, permettendo agli scienziati di essere informati sul contenuto e sugli autori delle scoperte più importanti. Se questo ruolo viene meno si interrompe la circolazione delle idee migliori. In più, dato che le pubblicazioni scientifiche finiscono nei curriculum degli scienziati, cattedre e fondi pubblici per la ricerca rischiano di essere assegnati a chi non lo merita, e dunque sprecati.

Lo scandalo Hindawi è iniziato nel 2022, poco dopo l’acquisto del marchio da parte del colosso dell’editoria accademica statunitense Wiley. Diversi ricercatori fecero emergere le anomalie ricorrenti in molte riviste del gruppo. Nel giro di due o tre anni, il volume di studi pubblicati dalla Hindawi era aumentato anche di dieci volte. In particolare si erano moltiplicati i «numeri speciali», cioè edizioni monografiche in cui la rivista invita diversi gruppi di ricerca a divulgare le proprie ricerche dopo aver superato la «peer review», almeno in teoria. A un esame più attento, gli inviti in gran parte portavano a pubblicare studi truffaldini, che dovettero essere cancellati a centinaia e poi a migliaia.

LA SOSPENSIONE dei «numeri speciali» da parte di Wiley non è bastata a fermare lo scandalo. Un anno fa diciannove riviste del gruppo Hindawi sono state escluse dal catalogo Web of Science. È una specie di «Wall Street» della ricerca in cui sono elencate e valutate le riviste scientifiche ritenute affidabili e che tiene il conto delle citazioni che ogni studio riceve e permette così di misurare in modo «oggettivo» (ma assai controverso) il valore di ricerche e ricercatori. Ai fini di carriera, solo le riviste indicizzate da Web of Science hanno un qualche valore. Per una rivista, l’espulsione equivale alla morte scientifica. Pochi giorni fa alla Wiley non è rimasto che chiudere del tutto le diciannove riviste ormai screditate.

LE TRUFFE SCIENTIFICHE gettano un’ombra non solo sui loro autori ma anche sugli editori che hanno accettato di pubblicarle. Le riviste che praticano la politica «open access» soffrono di un fisiologico conflitto di interesse: dato che per ogni studio pubblicato ricevono un compenso medio di alcune migliaia di euro dagli autori, gli editori hanno tutto l’interesse ad abbassare il rigore della valutazione e a chiudere un occhio sulla qualità delle ricerche selezionate. Anche per questo le riviste difficilmente collaborano con chi indaga alla ricerca di possibili frodi.

Tra i diciannove titoli bruciati nello scandalo Hindawi c’è anche «Contrast media and molecular imaging», una rivista specializzata in studi di radiologia. Nel suo comitato editoriale, che riceve e screma le proposte di pubblicazione, figura Luca Filippi, ricercatore all’università di Roma Tor Vergata e tra i più stretti collaboratori scientifici del ministro della salute Orazio Schillaci. Insieme, Filippi e Schillaci hanno pubblicato oltre cento articoli scientifici. Proprio su questa rivista è stato pubblicato uno degli studi firmati dal ministro Schillaci in cui compaiono fotografie al microscopio evidentemente duplicate, cioè usate più volte per illustrare esperimenti diversi, come dimostrò un’inchiesta del manifesto. Lo studio «sospetto» di Schillaci e colleghi – di cui non è mai apparsa la rapida correzione promessa dal ministro – era proprio in uno dei vituperati numeri speciali della rivista. Un altro numero speciale intitolato «Molecular Imaging for Basic Science and Personalized and Intelligent Medicine» vedeva Schillaci tra i curatori.

A DISPETTO della chiusura delle riviste, l’editore Wiley non sembra voler cambiare strategia commerciale. Lo testimonia la vicenda recente di un’altra rivista pubblicata da Wiley, il «Journal of Economic Surveys». In questo caso, il comitato editoriale si è ribellato alle pressioni dell’editore.

COME RACCONTA al manifesto Roberto Veneziani, economista all’università «Queen Mary» di Londra e «managing editor» della rivista, il comitato editoriale – il cui lavoro di solito non è retribuito nonostante i ricavi che garantisce agli editori – si è dimesso in blocco illustrando le sue ragioni in una lettera aperta pubblicata nello scorso febbraio. Veneziani e i suoi colleghi hanno spiegato di non aver accettato le richieste dell’editore di pubblicare sempre più articoli e indirizzare i pochi rifiutati verso altre riviste del gruppo, in modo da non disperdere potenziali fonti di introiti. Al contrario, il comitato chiedeva maggiore severità nei confronti delle potenziali truffe. «Intendiamo sollevare il dibattito sulla direzione intrapresa dall’editoria accademica», si legge nella lettera aperta «che a nostro avviso rischia sempre di più di compromettere l’autenticità della scoperta e della divulgazione di ricerca e conoscenza di qualità».

IL CASO DI WILEY non è però l’unico. Secondo un censimento del sito «Retraction Watch», nell’ultimo anno le redazioni delle riviste scientifiche dimissionarie per protesta contro gli editori troppo attenti ai profitti sono state diciassette. Le dimissioni di massa riguardano tutti i maggiori gruppi editoriali: Wiley, ma anche Elsevier, Taylor & Francis, Springer e Mdpi. Insieme rappresentano oltre la metà del lucroso mercato dell’editoria scientifica, che assicura un fatturato annuo di circa diciannove miliardi di dollari.