Autrice tra le più seguite del cinema francese contemporaneo, Céline Sciamma è nata e cresciuta a Cergy-Pontoise più o meno negli stessi anni nei quali Eric Rohmer ambientava in quel paesino a nord di Parigi L’amico della mia amica, una delle sue Commedie e proverbi. Sin dall’inizio il cinema di Sciamma ha scelto di raccontare al grande pubblico storie che riguardano l’universo femminile: l’esordio nel lungometraggio, Naissance des pieuvres, fu presentato in Italia al Torino Film Festival nel 2007, poi i suoi film hanno via via guadagnato sempre più spazio e attenzione e sono stati tutti distribuiti nelle sale italiane, da Tomboy a Diamante nero, da Ritratto della giovane in fiamme fino all’ultimo Petite Maman che uscirà per Teodora in autunno.
Al cinema di Céline Sciamma è dedicata la monografia collettiva Architetture del desiderio, a cura di Federica Fabbiani e Chiara Zanini, che riunisce gli sguardi di alcune delle firme più interessanti della critica cinematografica italiana. Tutte, rigorosamente, donne: il libro ha un taglio dichiaratamente militante – e in alcuni dei suoi saggi anche esplicitamente didascalico, come si evince dall’impostazione delle note, dall’articolazione di alcuni contenuti e da una più vasta bibliografia che le autrici vogliono contribuire a diffondere – perché militante è la posizione autoriale di Céline Sciamma, femminista e lesbica dichiarata, sceneggiatrice e regista che conosce profondamente il cinema e con esso gioca in modo impalpabile e raffinato, mettendo in opera un rovesciamento degli stereotipi che appartengono alle narrazioni più canoniche allo scopo di manomettere le strutture del patriarcato e decostruire la mascolinità. Il tentativo di raccontare il mondo da una prospettiva radicalmente non binaria e non eteronormativa fa sì che Sciamma sia oggi considerata tra le esponenti più significative di un cinema queer contemporaneo europeo ma non solo.

LE AUTRICI del libro analizzano i suoi film facendoli dialogare con un universo teorico ampio e forniscono un approfondimento significativo di ciò che in ognuno di essi (ma anche nelle sue collaborazioni da sceneggiatrice con registi come André Téchiné e Claude Barras, e da ultimo con Jacques Audiard) è presente in modo non esplicito, essendo diventato materia cinematografica. Se Silvia Nugara rilegge Tomboy facendolo risuonare ad esempio con le riflessioni di Simone de Beauvoir, Judith Butler, Jack Halberstam e Leslie Feinberg, la manipolazione dei codici del teen movie in Naissance des pieuvres si confronta nel saggio di Federica Fabbiani con la figura di Violette Leduc, ma anche con il pensiero di Paul B. Preciado e di Monique Wittig. Ed è convincente il modo in cui Elisa Cuter, parlando di Diamante nero, mette in allerta sui rischi dell’attribuire identità troppo strette rispetto alle quali gli interessi tematici di Sciamma (l’infanzia? l’adolescenza? la femminilità? la marginalità?) svicolano, si ritagliano uno spazio di imprevisto e perseguono una forma di classicità che le consente di operare continui spostamenti sotterranei, rivolgendosi a un pubblico che è trasversale e diverso per età, cultura, genere e orientamento sessuale.
Per riprendere le parole di Cuter: situarsi, cioè prendere posizione, ma non per questo rinunciare all’universalità. Quello che oggi è forse considerato il più celebre dei film di Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme, secondo Daniela Brogi consente alla regista di reinventare la posizione della donna all’interno della rappresentazione tout court in una prospettiva che attraversa le arti visive, lavorando sullo sguardo, sui silenzi e sulle azioni allo scopo di rovesciare quegli stessi presupposti che fanno della dimensione ottica un’altra forma di possesso, con l’obiettivo di creare un’erotica che non sia un’erotica del dominio.

E INFINE l’esplorazione dell’immaginario che la regista presenta in Petite Maman, la sua ultima opera realizzata in piena pandemia, ha come punti di riferimento figurativi il mondo del cinema d’animazione (e in particolare lo Studio Ghibli di Miyazaki) nonché un certo cinema fantasy americano degli anni Ottanta, come spiega con acume nel suo saggio Ilaria Feole; ma ha molto a che vedere anche con una dimensione del sovrannaturale che maschera e trasforma i timori e i desideri delle protagoniste dei suoi film e degli esseri umani in generale, che cercano uno spazio di apertura all’altro che consenta nello stesso tempo di essere pienamente sé stessi.
C’è una densa stratificazione nell’opera di Céline Sciamma, ed è felice l’intuizione di dedicarle questa ricerca a più voci per conoscere meglio il suo lavoro. Un po’ meno la scelta di aver inserito le immagini dei film a fine volume, anche se si tratta probabilmente di una scelta obbligata per una piccola casa editrice come Asterisco a cui va il merito di essersi lanciata in questo progetto. Chiude il volume un’intervista inedita alla regista, nella quale il riconoscimento del debito nei confronti di Agnès Varda e il riferimento alla «gioia di essere contemporanee» – e cioè a quella radicalità politica della gioia sottolineata anche da Ilaria A. De Pascalis nella postfazione – sono solo alcuni degli ulteriori motivi di interesse che spingono a considerare con attenzione il percorso di una regista non remissiva che non smette di pensare il cinema come uno strumento di trasformazione degli immaginari, e dunque della realtà.