Un’anziana signora con problemi psichici costringe la figlia ad anomali vagabondaggi in auto per guardare le case lussuose dei quartieri residenziali e spiare le vite altrui; una bambina lasciata sola dai genitori nella sala d’attesa di un pronto soccorso fa amicizia con uno sconosciuto che la porta a comprare biancheria intima in un centro commerciale; una donna, forse malata di Alzheimer, impacchetta metodicamente i propri averi e si prepara così a morire, mentre lampi del passato le riportano alla memoria le immagini del figlio, scomparso nella primissima infanzia: sono alcune delle situazioni e dei personaggi che popolano i racconti di Sette case vuote (accurata traduzione di Maria Nicola, Sur, pp. 144, € 15,00), l’ultimo libro di Samanta Schweblin che completa, di fatto, la traduzione delle opere della pluripremiata scrittrice argentina, i cui romanzi Kentuki (2019) e Distanza di sicurezza (2020) sono editi da Sur, mentre i racconti degli esordi, pubblicati in Argentina tra il 2002 e il 2008, sono usciti da Fazi in una selezione antologica (ingiustamente dimenticata) intitolata La pesante valigia di Benavides (2010).

L’uso del grottesco
Proprio questi racconti «giovanili» valsero a Schweblin la fama di maestra del fantastico e il confronto con altre autrici – Mariana Enríquez con il suo neogotico, per esempio – che si allontanavano dal realismo, pur continuando a raccontare fatti e tensioni del mondo globale dalla periferia. Non è tanto il ricorso all’impossibile a stravolgere il reale, nei racconti di Schweblin, quanto piuttosto l’esaltazione del lato assurdo e grottesco, capace di produrre fratture inaspettate, quella sorta di cortocircuito negli eventi quotidiani che ricalca il modello di una prestigiosa tradizione à la Cortázar, autore più volte indicato dalla scrittrice – insieme a Bradbury e Kafka – tra i propri precursori (anche se, a ben vedere, la somiglianza tra i due argentini non va oltre questa comune concezione del fantastico quotidiano). Sembra che Schweblin tenga a inscriversi in un genere fortemente codificato nel suo paese per inventarne nuove soluzioni, più adatte a raccontare la transizione al XXI secolo, che in Argentina si inaugurò con la crisi finanziaria del 2001, producendo un cambio davvero epocale, mentre rivelava la brutalità degli effetti delle politiche economiche neoliberiste.

Il fantastico alle spalle, Sette case vuote ha pagine piuttosto intonate a un realismo allucinato e impietoso: pubblicati per la prima volta in Spagna nel 2015 (quindi anteriori a Kentuki: la cronologia non è irrilevante), questi racconti coincidono con una svolta nella scrittura di Schweblin, che trova ora una voce propria e personalissima, fatta di una prosa «asciutta e dura» – ha scritto Andrés Neuman – che diviene ancora più essenziale, tanto da ricordare – a tratti, sebbene un po’ paradossalmente – quella di Raymond Carver. Come lo scrittore statunitense, anche Schweblin lascia infatti che siano i gesti e le atmosfere a costruire trame e significati, prediligendo una prosa sorprendentemente bifronte: da una parte opaca, addirittura ellittica, tale da offrire un resoconto intenzionalmente lacunoso dei fatti; dall’altra minuzioso, saturo di dettagli, disposti tuttavia in modo da impedire la visione d’insieme.

Questa strategia, utilizzata per esempio in «I miei genitori e i miei figli», oppure in «La respirazione cavernosa», serve a volte a restituire esperienze e punti di vista taciuti oppure pressoché irriproducibili, per esempio gli stati mentali propri alle malattie degenerative che colpiscono non solo il corpo ma anche le facoltà mentali e psichiche; e il disorientamento che deriva dal ritrovarsi immersi in un mondo banale e ordinario, del quale tuttavia non è possibile comprendere né la fisionomia né le motivazioni, provoca un’inquietudine profonda, a volte persino un fremito di terrore.

Proprio nelle case che compaiono già nel titolo, spogliate della loro funzione di luogo protetto e accogliente, avviene la trasformazione del familiare in estraneo, del domestico nell’irriconoscibile, nel freudianamente perturbante: ogni racconto è una casa, e ogni casa ospita una relazione, anzi, la relazione per antonomasia, quella genitori-figli, già affrontata in Distanza di sicurezza. Una delle linee lungo le quali correva la tensione narrativa di quel romanzo si irradiava dalla riflessione sulla maternità, investendo in particolare quel suo lato oscuro e dolente che pertiene ai rituali del controllo ossessivo, quei rituali che garantiscono, appunto, una «distanza di sicurezza». Anche in Sette case vuote – malgrado i ruoli appaiano ora rovesciati e i rapporti quanto meno sbilenchi, fuori asse, deformati – la cura, intesa come fulcro vitale delle relazioni, si ripropone, per certi versi, come uno dei motivi sotterranei.

Nessuno ha spogliato le case vuote del titolo, anzi: i loro spazi sono saturi di oggetti-feticcio meticolosamente inquadrati (la zuccheriera sepolta nel giardino di «Niente di tutto questo», la lattina di cioccolato in polvere di «La respirazione cavernosa», gli abiti smessi di un ragazzo morto in «Sempre così in questa casa»), che transitano da un luogo all’altro, suggerendo una funzione e un senso mai del tutto decifrabili, ciò che contribuisce a torcere ulteriormente l’impalcatura del reale.

Rarefazione di luoghi
Vuote lo sono, queste case, semmai in quanto prive di relazioni affettive, come anticipano i terribili, e meravigliosi, versi presi da «La desaparición de la familia» dell’artista cileno José Luis Martinez, che Schweblin cita a epigrafe come a annunciare che l’irruzione della solitudine negli spazi domestici li rende inabitabili, morti, fantasmali. Una ancora più radicale rarefazione dei luoghi e delle relazioni verrà riproposta da Samantha Schweblin in Kentuki, romanzo a tinte distopiche nel quale, grazie a dei bizzarri aggeggi di pelouche il cui sguardo è governato da una videocamera, vengono ritratte le perverse relazioni di varie coppie di osservati e osservatori, in un contesto ridotto a fondale anonimo e globalizzato. Tutta la narrativa di Schweblin, della quale i racconti di Sette case vuote sono un saggio prezioso, illumina in modo disincantato e provocatorio le violenze intrinseche alla nostra quotidianità insieme alle ombre del nostro tempo, trasportandoci senza il conforto della indicazione di un riparo, fuori dalle nostre zone di maggior agio.