«Nego risolutamente che il sionismo sia un movimento messianico e che abbia il diritto a ricorrere a una terminologia religiosa per scopi politici … L’ideale sionista è una cosa, quello messianico è un’altra e i due non si incontrano se non nella fraseologia roboante dei raduni di massa». Così scriveva Gershom Scholem nel 1929, dopo i Moti esplosi quell’estate a Gerusalemme e il massacro di Hebron, in una pagina rivolta contro la destra revisionista, estrema e minacciosa di Jabotinsky, ma tesa anche a difendere Brit Shalom – o «Patto di pace», il piccolo e influente gruppo politico del quale egli era una figura di spicco, insieme al filosofo Hugo Bergman e ai membri stranieri Martin Buber e Albert Einstein – dall’attacco lanciato dal fronte opposto, laburista, e per mano del romanziere Yehuda Burla sulle pagine del quotidiano sindacale Davar. Per non esacerbare i rapporti con gli arabi, Scholem e i suoi sodali, favorevoli alla creazione di un’entità binazionale, chiedevano infatti in quell’epoca di limitare l’immigrazione ebraica. Di qui l’accusa di minare il legame con la Diaspora.
Erano passati ormai sei anni da quel 14 settembre 1923, quando insieme a Fritz Goitein, un altro giovane e promettente studioso dell’ebraismo, Scholem si era imbarcato da Trieste per iniziare la sua vita in Palestina. Chi era, da dove proveniva quel giovane, e dove l’avrebbe condotto quella scelta? Gerhard (questo il primo nome) – risponde oggi l’agile ma documentata biografia di David Biale Il maestro della cabala Vita di Gershom Scholem (traduzione di Gian Mario Cao, Carocci editore «Saggi», pp. 211, e 23,00) – era nato nel 1887 in una famiglia ebraica berlinese, ormai perfettamente laicizzata. Sin da adolescente aveva avuto però una lucida, acuta coscienza dell’impossibile posizione dell’ebraismo tedesco, che gli appariva basato su un tragico malinteso. Distante dal padre e più vicino, nel rifiuto della prospettiva dell’integrazione borghese, al fratello Werner, militante comunista, aveva iniziato giovanissimo a studiare la lingua santa, a leggere il Talmud e i testi della mistica. Guardava inizialmente a Buber e subiva un’influenza che presto avrebbe contestato, in modo implacabile, decidendo di «dover essere ed essere fondamentalmente contro di lui». Non poteva accettare la presa di posizione a favore dell’impegno degli ebrei nella Grande guerra, e vi riconosceva, a ben considerare, tutta la debolezza della filosofia buberiana dell’esperienza e l’errore della relativa concezione astorica dell’ebraismo. L’insegnamento non poteva quindi venire da Buber ma da Gustav Landauer e con lui da Ahad Ha’am, il padre del sionismo spirituale e oppositore di Theodor Herzl, quindi da scrittori come Bialik o Agnon.
Certo anche l’amicizia con Walter Benjamin (sulla quale Biale cede per una volta alle illazioni) aveva avuto la sua parte in questo mutamento repentino. Tuttavia il giovane studente universitario di matematica e filosofia, già sospeso dal ginnasio per un testo antimilitarista, non soffriva di sudditanza intellettuale, né di troppe inibizioni. Tanto che un giorno Raphael Buber lo vide irrompere nello studio del padre urlando e agitando le lunghe braccia come ali d’uccello – e lo avrebbe cacciato volentieri, se non fosse intervenuto il genitore: «il suo nome è Gershom Scholem, ed è destinato a divenire un grande studioso». In quegli anni già magistralmente rievocati dallo stesso protagonista in Da Berlino a Gerusalemme, il tratto impetuoso del carattere iniziava in effetti a tradursi nell’impronta originale e profonda che Scholem avrebbe lasciato nello studio delle religioni e del mito. Contro la Scienza del giudaismo ottocentesca egli aveva inteso l’oggetto di ricerca come un essere vivente, e aveva riportato in piena luce quell’eredità della cabala che le tendenze assimilatrici avevano occultato con imbarazzo. Nei suoi lavori, anche i simboli del misticismo si rivelavano intrisi di storia, e la tradizione ebraica si dispiegava in una sua ininterrotta tensione fra le tendenze conservatrici e quelle antinomiche o apocalittiche, capaci di scuoterla e rinnovarla internamente dettando gli sviluppi dialettici più drammatici, come quello che liberò dallo sfondo della dottrina tardo cinquecentesca di Isaac Luria il messianesimo sabbatiano del secolo successivo.
Già autore nel 1979 della prima monografia dedicata a Scholem, Biale ne restituisce oggi un ritratto vivace, ripercorrendo i diari giovanili, le lettere dense di ironia e i documenti d’archivio, riflettendo su affinità e idiosincrasie, ricostruendo il confronto con Rosenzweig, il rapporto con la logica di Kafka o l’opera del cabalista cristiano Molitor, le imprese scientifiche e l’avventura dell’università ebraica fondata da Leo Magnes, la passione da bibliofilo coltivata nella quotidianità di Gerusalemme, che diventava sempre più difficile. Nell’arco di un decennio il tragico inganno si era palesato anche ai liberali convinti, e la città si era fatta, come altre, rifugio dalla strage imminente che non risparmierà neanche i più cari a Scholem: Werner sarà assassinato a Buchenwald nel luglio del 1940, Benjamin morirà durante la fuga a settembre. La tensione con gli arabi aveva intanto raggiunto l’apice, e dal 1939 gli inglesi respingevano le navi dei profughi. Mentre queste affondavano, la banda Stern passava all’azione, e il programma revisionista riscuoteva consensi. Già nel ’31, Scholem aveva constatato l’estraneità del proprio sionismo «mistico-religioso» e teso al rinnovamento dell’ebraismo da quello empirico, vera «normalizzazione» del popolo in senso politico-statuale. Nell’ottobre del 1945, egli dovrà invece rispondere all’articolo Ripensare il sionismo dell’amica Hannah Arendt, che era come lui favorevole alla prospettiva bi-nazionale ma che criticava ora i kibbutzim portando anche ad esempio l’URSS, con la sua capacità di «comporre i conflitti di nazionalità» e «organizzare le popolazioni diverse». «Sono riuscito a leggere l’esposizione del tuo argomento solo a forza di scrollare il capo», le scriverà Scholem, esprimendo per la prima volta un dissenso destinato a culminare vent’anni dopo, col durissimo confronto sul processo Eichmann.
Chiudendo il libro, e ripensando a quel dissidio famoso e definitivo, si potrà forse intendere il particolare sionismo scholemiano più che come un anelito giovanile volto alla delusione o al compromesso, come una concezione plasmata sui più ardui paradossi della mistica, e capace di comprendere sia la svolta concreta nell’ebraismo moderno sia l’irrealizzabilità (non rovinosa) del proprio ideale. Nel 1980, d’altronde, la risposta a una domanda dello stesso Biale sul movimento dei nuovi insediamenti appoggiato dalla destra di Begin suonava decisa: «sono come i sabbatiani; e come per i sabbatiani, il loro programma messianico non può che portare alla catastrofe». È certo evidente, in queste, l’eco delle parole rivolte nel ’29 contro Jabotinsky, ma è perciò anche riconoscibile la voce di Benjamin, che (nel ’20 o ’21) distingueva in un’articolazione sottile il mondo profano e il Regno: se la coincidenza dei due è solo indebita e conduce all’infelicità, sarà invece l’ordine puramente «profano del Profano» a favorire, in modo indiretto, l’avvento messianico. Ricordando poi come Benjamin non fosse in quegli anni disposto a discutere le questioni storiche in termini di redenzione, l’ormai anziano Scholem svelava il tratto inalienabile della sua filosofia del mito e della storia, o la formula abbreviata di una vita di studioso.