Questo è l’ultimo articolo di «Pino» Pucci, spedito poco prima di morire il 16 febbraio. Lo ricordiamo qui con amicizia e riconoscenza.

In una lettera a un amico scritta nel 1899 Sigmund Freud, eccitato per quanto andava scoprendo sull’inconscio, si paragonò a Schliemann, lo scopritore di Troia. Riesumatore di quanto era sepolto negli strati profondi della psiche, il medico viennese si identificava, con un certo compiacimento, con il celebre scavatore che aveva riportato alla luce ciò che prima si riteneva essere esistito solo nella fantasia di un antico poeta, e la metafora archeologica torna, come è noto, più volte nei suoi lavori per definire il metodo psicanalitico.
Freud non era certo il solo a essere affascinato da Schliemann, morto da nove anni ma già entrato nel mito. Prima di lui l’archeologia era stata un affare riservato a sovrani e principi della Chiesa o, più recentemente, a istituzioni accademiche patrocinate dai governi. Con lui si era fatta romanzo popolare. Un uomo qualunque, un commerciante senza studi regolari ma con una cieca fede negli scrittori antichi, affonda la sua vanga nei siti più prestigiosi (oltre che a Troia, a Micene, Tirinto, Orcomeno, per poco non anche a Cnosso), e immancabilmente riporta alla luce le testimonianze concrete di un passato mitico. Ci sono nella sua vicenda tutti gli elementi per sedurre emozionalmente il grosso pubblico: il self-made man che da povero in canna diventa milionario; le avventure in paesi esotici; la scoperta di tesori; la rivincita dell’outsider di genio sullo scetticismo degli addetti ai lavori, e soprattutto la realizzazione di un sogno infantile inseguito per tutta una vita. Fu lo stesso Schliemann a gettare accortamente le basi della propria leggenda con l’autobiografia che – fatto inconsueto per un’opera che si pretendeva scientifica – apriva il volume della pubblicazione degli scavi di Troia del 1881. Da allora essa è stata alimentata da innumerevoli opere divulgative, tutte più che felici di accreditare una vicenda dal sapore fiabesco, sorvolando sugli aspetti più problematici della sua figura.
L’uomo voleva essere considerato un coscienzioso studioso, ma era sostanzialmente un dilettante privo di metodo, che scavava talvolta senza permessi e che non aveva esitato a trafugare il tesoro di Troia invece di consegnarlo ai Turchi. I suoi scavi consistettero in gran parte in sventramenti sconsiderati. Per arrivare a quella che riteneva la Troia omerica ignorò tutte le stratificazioni posteriori del sito, ammettendo poi candidamente che: «gran parte della città è stata da me distrutta con la demolizione di tutti gli edifici che ho incontrato negli strati superiori». Le supposte tombe degli Atridi che scavò a Micene sono in realtà di circa quattro secoli più antiche dell’età in cui sarebbe vissuto Agamennone. II solo merito che in ultima analisi non si può misconoscergli resta quello di avere aperto un nuovo campo di studi, quello dell’archeologia pre-classica, e di aver richiamato su di esso l’attenzione dell’archeologia ufficiale.
Quanto allo Schliemann eroe romantico (quasi un’incarnazione del Peer Gynt creato in quegli anni da Ibsen), una scrupolosa revisione dei diari e delle lettere conservati presso l’Accademia Americana di Atene ha portato a risultati sconcertanti. La storia della vocazione infantile («Da grande scaverò Troia!») sembra essere stata inventata a posteriori. È provato che mentì ripetutamente sulle circostanze del ritrovamento del Tesoro di Priamo, e c’è il fondato sospetto che lo abbia messo insieme con pezzi di varia provenienza. Del resto non esitò a pubblicare come trovate nel giardino della sua casa di Atene delle iscrizioni risultate poi comprate sul mercato antiquario.
Il lavoro di revisione va avanti dagli anni settanta del secolo scorso e non è ancora esaurito. Solo quando si sostituirà all’agiografia (vedi il capitolo dedicatogli da Ceram nell’evergreen Civiltà sepolte o le biografie romanzate di Emil Ludwig, Philip Vandenberg e Irving Stone) la rigorosa indagine documentaria potremo valutare compiutamente il personaggio in tutte le sue sfaccettature.
Dobbiamo perciò salutare con soddisfazione il bel volume Heinrich Schliemann a Napoli che Umberto Pappalardo, poliedrico archeologo ora direttore del Centro Internazionale di Studi Pompeiani, ha curato per i tipi di Francesco D’Amato editore (pp. 262, € 16,00). Come ricorda nella prefazione Paolo Giulierini, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il nome di Schliemann è strettamente legato a Napoli, città da lui frequentemente visitata e dalla quale era solito imbarcarsi per raggiungere la sua casa di Atene dopo i suoi numerosi viaggi. Avrebbe fatto così anche in quel dicembre del 1890, se un tumore che da qualche tempo lo aveva aggredito non lo avesse improvvisamente stroncato, mentre era ospite del Grand Hotel, all’età di 63 anni.
Un saggio in volume dello stesso Pappalardo ricostruisce accuratamente, sulla base dei diari, quest’ultimo soggiorno a Napoli, insieme agli altri nove effettuati in precedenza, a partire del 1858. Ricorrenti furono, com’è ovvio, le visite a Pompei. Fu qui che Schliemann conobbe Giuseppe Fiorelli, protagonista della sistematica campagna di scavi della città antica, e con lui mantenne negli anni uno stretto sodalizio, con ripetuti scambi di lettere. Il carteggio originale, di cui Carlo Knight ricostruisce qui le singolari peripezie, è andato purtroppo perduto; ma in appendice al libro è stato opportunamente ristampato un rarissimo volumetto – ne sopravvivono solo due copie – nel quale Domenico Bassi aveva pubblicato nel 1927 estratti di lettere indirizzate da Schliemann all’archeologo napoletano. Da esse si apprende tra l’altro che a un certo punto si era profilata la possibilità di esporre il famoso Tesoro di Priamo proprio nel Museo di Napoli. Il progetto tramontò per difficoltà oggettive ma anche per la diffidenza, quando non aperta ostilità, delle autorità italiane verso il discusso personaggio. In ultimo Schliemann decise di donarlo alla Germania, e di qui nel 1945 i Russi vincitori lo trasferirono segretamente a Mosca, dove sarebbe riapparso solo nel 1993, al Museo Puškin.
Non tutti sanno però che qualcosa di Troia comunque a Napoli rimase. Tra i suoi amici partenopei Schliemann contava infatti Giustiniano Nicolucci, considerato uno dei fondatori dell’antropologia fisica in Italia. A lui Schliemann donò nel 1874 una piccola collezione di strumenti litici provenienti dagli strati più antichi di Troia (circa 3000 a.C.), che Nicolucci cedette poi al Museo di Antropologia dell’Università, dove è tuttora esposta. Lucia Borrelli, curatrice dei Musei delle Scienze Naturali e Fisiche dell’Università di Napoli Federico II, mostra nel suo saggio, anche attraverso delle lettere rimaste finora inedite, come quel dono si inserisca nel quadro degli scambi scientifici tipico degli studiosi europei di quel periodo.
Il tema è ulteriormente approfondito nel contributo di Massimo Cultraro, autorevole archeologo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che a Schliemann ha già dedicato nel 2018 un importante lavoro – L’ultimo sogno dello scopritore di Troia. Heinrich Schliemann e l’Italia (1858-1890) – relativo alle sue esplorazioni italiane: gli scavi ad Alba Longa su suggerimento di Luigi Pigorini e quelli in Sicilia (Mozia, Segesta, Erice e Siracusa) sulle orme degli esuli troiani, nessuno dei quali portò peraltro a scoperte significative. Qui Cultraro ricorda, oltre a quella napoletana, analoghe donazioni di materiali preistorici troiani fatte da Schliemann al neonato Museo Preistorico Etnografico di Roma e a quello di Bologna.
Nel volume è stata utilmente ristampata la Presentazione che Amedeo Maiuri, il principe dei pompeianisti, scrisse nel 1962 per la traduzione italiana dell’autobiografia dell’archeologo tedesco, puntualizzando che in effetti Schliemann archeologo non fu. Privo di una formazione specifica, ignorante tanto dei metodi di scavo che già si erano affermati all’epoca sua quanto della cultura artistica greca in generale, la sua sola arma era una fede cieca in Omero (oltre, beninteso, agli ingenti capitali di cui disponeva).
Infine il capitolo sulla vita di Schliemann scritto da Sybille Galka, curatrice del Museo Heinrich Schliemann di Ankerhagen, la città dove egli trascorse la sua infanzia, fornisce al lettore non specialista molti dettagli interessanti, anche se non è esente da una certa condiscendenza verso le affabulazioni propalate dal diretto interessato.
Al di là delle informazioni utili che contiene – e sono tante –, questo libro conferma che l’amore ossessivo per l’archeologia di questo personaggio difficilmente etichettabile non fu mai disinteressato. Da accorto commerciante egli la usò sostanzialmente per autopromuoversi, per farsi – come dice anche Cultraro riferendosi alle sue donazioni archeologiche – ‘pubblicità’ e guadagnarsi quel titolo di Eroe che volle inciso sul suo mausoleo ad Atene.