«In principio era il calcolo», potremmo dire, per mettere a fuoco la tecnica compositiva di Ivan Schiavone, adottando l’incipit di uno scartabello sanguinetiano. E tuttavia il prestito, pur elegante e appropriato, non basta a dire la stratificazione del lavoro compiuto, come continua a dimostrare l’ultimo libro di poesia pubblicato da Schiavone, Tavole e stanze (Oèdipus edizioni, pp. 64, € 12,50): al «calcolo» che determina rigorosamente architettura dell’opera e costruzione ritmica dei singoli versi va aggiunto, in stringente rapporto, il livello fonico-semantico – e tematico – dell’opera. Dal particolare al generale, dalla macro alla micro-forma (e viceversa), tutto si tiene in Tavole e stanze, anche ciò che per intenzione corre in inciampo o crea dissonanze, musica che suona là dove ragionevolmente (computazionalmente) non dovrebbe, e che non suona, invece, dove o come ci attenderemmo di sentirla. Una delle qualità di Tavole e stanze è proprio la sua natura aperta e dialettica. Non solo dialettica interna, fra sezioni, ed esterna, verso il lettore, ma anche dialettica irrisolta con la tradizione letteraria che non è rifiutata – nessuna intenzione di tabula rasa, nella poetica di Schiavone – né assunta senza vaglio, quanto piuttosto selezionata e tagliata di sguincio, messa alla prova, tentata a indurre in tentazione i fruitori. Sempre variata e disonestamente dissimulata.
Con Tavole e stanze Ivan Schiavone (Roma, 1983), giunge al suo quarto libro di versi, dopo Enuegsz (2010), Strutture (’11), Cassandra, un paesaggio (’14), congegni complessi nei quali la procedura compositiva e la scelta dei materiali implicano una compresenza di freddezza e calore, fin dai meccanismi di Strutture, secondo ad apparire a stampa, ma primo per anni di composizione (2004-’06), esatto nei calibri e nei cardini di snodo, bruciante per fondamenti artaudiani.
Ma è nel confronto con il penultimo libro, Cassandra, un paesaggio che Tavole e stanze meglio rivela costruzione e significato. Intanto, le Tavole ampliano il tema del paesaggio, insieme testuale e geografico, ma anche antropico e culturale. Poi, alla struttura di Cassandra, che da sezioni cupe chiudeva con una ripresa del respiro, le Annotazioni per tornare ad abitare, le Tavole oppongono andamento più subdolo: lo sviluppo non è privo di avvallamenti, e non chiude univocamente in climax né in anticlimax. Di primo acchito Tavole e stanze paiono procedere verso uno scioglimento – la quarta sezione, cantico piano, che segue parti a temperatura più «bassa», si presenta come poesia d’amore coniugale sostenuta da ritmi esatti, privi d’infrazioni –, ma la quinta e ultima sezione reimmette nel ritmo ambiguità o illeciti già della sezione d’apertura.
Se, com’è vero, la trama metrica è latrice di senso, è metafora o allegoria di situazioni storico-politico-esistenziali, qui in cauda si avverte un paesaggio sonoro poco confortevole, che riverbera luce alle sue spalle. Illumina anche quella sezione, cantico piano, dal titolo in apparenza denotativo, indicazione di dinamica musicale, piano, che invece congiunge elementi a prima vista non congiungibili, il cantico dei cantici di biblica ascendenza – a conoscere l’autore, da leggersi nella laica e sensuale traduzione di Emilio Villa – e il Balestrini dei poemi piani, sottotitolo di Come si agisce. Balestrini avvertiva che le poesie di Come si agisce si sviluppavano (e andavano lette) «su una superficie piana» che permetteva di determinare «tra di esse differenti relazioni e ordini di lettura». Anche nelle poesie del cantico piano esistono differenti relazioni e ordini di lettura, anche qui c’è lavoro compiuto e visibile in superficie, sulla pelle del testo, che presuppone però – la botola è sempre pronta, in Schiavone quanto in Balestrini –, un lavoro verticale, su una precisa selezione di modelli, non propriamente di fonti, si badi, della tradizione italiana e straniera. E i modelli risuonano a distanza e spesso s’intrecciano e stridono nel singolo testo, specie nel contatto tra lessico e metro: termini di una campagna inquieta, «albero», «rami», «aironi» «esuli», «taciti» e «attoniti», e il meno comune «embrici», sineddoche per ‘tetto’, punteggiano una struttura ostinatamente sdrucciola, perfida, alle cui spalle si intende il ritmo ‘tutto sdrucciolo’ dell’inno bacchico dell’Adone mariniano. A non dire della ritmicità sanguinetianamente disinvolta di «donna da darsena, arsenale e docks, donna da stock, da stop, da melting pot», che però chiude con «donna che solo agli occhi miei sei donna, pienezza di mondo, salute, gioia», ove la scrittura inganna, mescolando a figuratività e andatura novecentesche una quasi-parafrasi dalle chiare acque di Petrarca, «colei che sola a me par donna», e culminando in marche stilnoviste, donna di «salute, gioia», cui pur può soccorrere, e la struttura sarebbe perfetta, circolare, la sanguinetiana Ballata delle donne: «femmina penso, se penso una gioia». Come non avvertire, in questo cantico piano, differenti relazioni e ordini di lettura tra i testi? Come non tornare alle sei parole-rima della sestina lirica dantesca riusate in virtuosa dissipazione un paio di pagine prima?
Ben si comprende che possa sgomentare, Tavole e stanze, libro di poesia disturbante che ha impianto attuale, addirittura fintamente à la page – cartografia e abitazione, superficie e volume, progettualità d’orizzonte e verticalità di stanza metrica (non solo abitativa) –, e insieme però linguaggio inattuale e contraddittori segnacoli della tradizione. La sua ragione profonda è un’eticità della scrittura che non necessita di dichiarazioni paratestuali, perché lavora sul doppio fronte della forma e del linguaggio nel consapevole rapporto con l’ideologia. «Le “forme” vanno salvaguardate, nutrite, rinnovate, mutate…», scriveva Giuliano Mesa, e nel contempo, Elio Pagliarani, citando Pound, dava alla poesia il compito di «mantenere in efficienza, per tutti il linguaggio».