Quando, nel 1954, pubblicò la propria autobiografia, Elsa Schiaparelli – colei che meglio di chiunque altro aveva mostrato, nei decenni tra le due guerre, quale potenziale di surrealtà incomba su un oggetto così comune e quotidiano come un vestito – aveva poco più di sessant’anni. Tornata a Parigi dopo aver lasciato quella New York dove si era dovuta rifugiare perché sospettata di collaborare con i tedeschi, aveva trovato un mondo cambiato. Così Schiap, o Scap, come la chiamavano, non aveva più ripreso il ritmo dei tempi. Teoricamente il suo impero era ancora in piedi, i suoi molteplici licensing agreements con gli USA erano in fiore – per non parlare dei profumi, tra cui l’immortale Shocking, così battezzato perché la S era la sua lettera portafortuna –, boccetta originale, oggi pezzo d’antiquariato, disegnata da Leonor Fini nel 1937. Un torso femminile sormontato da un decoro floreale facente funzione di testa, alla Dalí. Tuttavia le vendite cominciarono a scarseggiare, i debiti aumentavano, le banche si tirarono indietro, e la collezione del 3 febbraio 1954 fu l’ultima.
Fu allora che Scap ripiegò su se stessa, ripercorse il proprio passato e lo chiamò Shocking Life (Donzelli, traduzione di Lilia Grieco, pp. 282, € 25,00): Shocking come il famoso «rosa», il colore «non occidentale» che a lei evocava l’altrove – Cina, India, Perù. L’aveva «brevettato» ai tempi del profumo, e ne aveva fatto un classico destinato a rimanere per sempre nella moda. Nonostante, o forse proprio grazie, alla sua volgarità: «un rosa da negri», come le fu puntualmente fatto osservare. Ma lei non si scompose: «E allora? – aveva ribattuto – I negri a volte sono sorprendentemente eleganti». Una bellissima mostra visibile a Londra quest’inverno (The Vulgar: Fashion Redefined, a cura di Judith Clark e Adam Phillips) ha reso omaggio poprio alla necessità del «volgare», alla sua vitalità. Perché un potenziale di volgarità nella moda c’è sempre – se per volgarità intendiamo quella fisiologica forza reattiva che i limiti imposti dal cosiddetto buon gusto travolge e stravolge dal basso di nuove corporeità emergenti, si trattasse pure di declassare il drappeggio della ninfa classica. Anzi tanto più.
Un punto di rosa vitalizzante
Schiap quella creativa volgarità l’aveva nel sangue. Ai suoi occhi quel punto di rosa era «vitalizzante» – life-giving. Sicché era significativo che a esso ritornasse al momento di dare un titolo alla storia della propria vita, anzi alla propria vita tout court, così come lei la voleva e sapeva raccontare – quasi a ribadire la propria identificazione con la forza d’urto di quel colore, anche se lei ormai si sentiva un uccello in gabbia. Non poteva più scappare in cerca di libertà, come tante volte aveva fatto nella sua vita, fin da adolescente. Il magico triangolo Parigi-Londra-New York non le offriva più speranze. Nemmeno nell’amato buen ritiro di Hammamet, in Tunisia, poteva rifugiarsi: nel 1954 gli arabi stavano combattendo per l’indipendenza e il posto non era sicuro. Schiap era parte di quell’intellighenzia mondana che aveva fatto del piccolo porto di pescatori africani una meta ricercata. Una specie di Capri libera e tribale. Vi erano passati ‘tutti’: Churchill, Camus, Cocteau, Horst, Hoyningen-Huene, Luchino Visconti… e anche lei vi aveva fatto sosta, nel 1950, con un amico, e se ne era innamorata. O meglio, aveva rinverdito un amore infantile, dato che, tredicenne, a Hammamet c’era stata con il padre, studioso del vicino oriente maghrebino. Sicché arrivare a possedere quella piccola casa era stato un po’ come ricongiungersi con la mai dimenticata origine romana.
Un ricongiungimento tutto interiore, e solitario, giacché i suoi rapporti con la famiglia d’origine erano stati sempre segnati da un tratto anaffettivo. Padre studioso di culture orientali e direttore della biblioteca dell’Accademia dei Lincei – Elsa nasce a Roma, e trascorre l’infanzia a Palazzo Corsini –, zio astronomo, direttore dell’Osservatorio di Brera e scopritore dei canali di Marte, nonna materna per metà scozzese, cresciuta in Estremo Oriente e sposata a dodici anni a un italiano di Salerno poi divenuto consigliere del khedivè d’Egitto, madre presto orfana e allevata a Firenze da un conte Serristori amico di famiglia. Una famiglia che forse in età più matura avrebbe stimolato la sua fantasia, ma che come primo atto lei rinnegò, inscenando con una governante la classica fantasia della povera orfanella raccolta per carità. La sua vera famiglia se la sarebbe costruita da sola, a Parigi. Ora, scrivendo, lo capisce: «La giovinezza e l’allegria ancora non mi appartenevano. Le avrei conosciute entrambe – curioso, no? – negli ultimi anni».
Nel medium dell’abito osò e sognò
Una trentina d’anni, fu la durata della parabola creativa di Elsa Schiaparelli: dai famosi maglioni pour le sport, che disegnava e poi faceva eseguire dalla sua rete di rifugiate armene sparse per tutta Parigi; all’esaltante collaborazione con artisti come Dalí, Vertès, Cocteau, Bérard; con fotografi come Horst, Cecil Beaton, Man Ray. Nessuno sa come e quando sia avvenuto l’incontro con Dalí, ma il reciproco ri-conoscersi fu immediato. Dalle oniriche e un po’ altezzose invenzioni dell’artista catalano, Schiap estrasse un succo prosaico, traducendole in alcune tra le più memorabili forme corporee del ventesimo secolo. Nel medium dell’abito lei «osò e sognò», come è stato scritto. Esemplare in questo senso l’uso che fece della chiusura lampo. Lei che aveva incantato i pubblici più danarosi con i suoi eccentrici e preziosi bottoni, si impossessò di quell’oggetto «povero», figlio della Grande Depressione, e ne fece una parte integrante del design dell’abito. Una zip piazzata bene in vista sottolineava l’indipendenza delle parti corporee, il loro porsi tra l’animato e il meccanico, come in un disegno di Picasso.
Del resto, al surreale elemento macchinico Schiap aveva già fatto ricorso per la sua boutique di Place Vendôme – autentica Boutique Fantasque nella quale si vendevano articoli disprezzati dalla haute couture – maglioni, gonne, sari ricamati, accessori fantasiosi. Tutto «pronto da portar via». In vetrina, il manichino ligneo Pascal, «pura bellezza greca dai capelli dorati», e la gabbia per i profumi, pure dorata, ricordavano come un abito sia sempre in attesa di essere indossato, un profumo «liberato». Non meraviglia che i turisti facessero la fila per fotografare questa vetrina bislacca. Della quale forse si ricordò Mary Quant quando, nel 1955, ideò il suo mitico negozio Bazaar, a King’s Road, da dove originarono le minigonne. E dire che Shocking Life era uscito solo l’anno prima. Che stranezze fa il calendario! Ma lo sguardo di Schiap era già retrospettivo. Dalla doppia prospettiva sul tempo derivava il tono insieme esaltato e malinconico dell’autobiografia, la straniata e straniante alternanza di prima e terza persona. Elsa è «io» quando deve rivelarci un suo qualche sofferto pensiero, ma è «Schiap» quando si vuole mostrare quale appare vista dall’esterno: la «decana» dei couturiers parigini, che non sbaglia un colpo. Ma da questo ruolo di dominatrice la Schiap che scrive è ormai lontana. L’energetico shock che aveva dato impeto alla sua inventiva, non poteva più recuperarlo: di qui forse quella sua certa vaghezza sui tempi, le persone, gli amori. È chiaro che scrivere a lei non basta. Forse, se avesse resistito un altro po’, fino a ritrovarsi in mezzo al gran tumulto degli anni sessanta, chissà, la sua leggendaria inventiva avrebbe avuto un ultimo guizzo. Invece preferì scrivere Shocking Life.
Ma ci pensò la nipote Marisa Berenson – figlia dell’adorata-tiranneggiata Gogo – a interpretare, dalle pagine di «Vogue» America, le minigonne, il nude look, gli abiti tribali di quegli anni. La nonna disapprovava. La modella, per lei, era rimasta una mannequin.