André Malraux, nel Cranio di ossidiana, col lirismo demagogico che gli onori e il ruolo gli concessero nella sua maturità, medita su Picasso appena morto. Visitando l’atelier di Mougins, accompagnato dalla vedova Jacqueline, quasi confuso dal caotico affollarsi delle opere, Malraux difende e celebra l’ultima fase dell’artista: «Il suo stridore copre l’orchestra delle forme della terra. Un’opera ricorda il calco della mano, quest’altra quello di una foglia; la Testa per il monumento di Apollinaire è stata la testa di Dora Maar, il Gatto è quasi un gatto». E va avanti enumerando e precisando le febbrili improvvisazioni di un genio poliedrico, come lo furono, nel Novecento, in campi diversi, Stravinsky e, in misura minore, Gide, polifagi di ogni esperienza.
Non proseguo nella citazione di Malraux, che porterebbe troppo lontano, perché una frase presenta tutti i protagonisti e accenna all’episodio su cui si incentra l’agile quanto felice racconto di Enzo Restagno La testa scambiata Apollinaire fra Picasso e Dora Maar (il Saggiatore, pp. 156, euro 18,00). Ben noto per i suoi fondamentali studi musicali, Restagno dimostra di muoversi con agio anche fuori campo, in virtù della sua capacità, rara tra gli studiosi italiani, di saper narrare con garbo e acume uno del puzzle più intricati e «divertenti» del mondo artistico del secolo scorso. Malraux enumera i protagonisti – Picasso, Apollinaire e Dora Maar – e accenna al dilemma e al «grottesco» del monumento funebre eretto da Picasso al poeta Wilhelm Apollinaris de Kostrowitzky, meglio noto come Guillaume Apollinaire, poeta e critico d’arte e letterato tout court, proteiforme e barocco in dilatata accezione.
Il poeta-soldato, così amava definirsi, morì non in guerra: se lo portò via col suo turbante di ferito perenne la febbre spagnola del 1918, come milioni di comuni mortali. Ma la cerimonia, ovvero il riconoscimento statale-ufficiale, un tempo si diceva l’incoronazione, della grandezza di Apollinaire avvenne soltanto nel 1959, a quarantuno anni dalla sua morte, quando molti dei suoi amici erano già scomparsi, i restanti spesso divenuti queruli e ingombranti come Cocteau, altri imbolsiti e incattiviti: insomma, tutto nasceva in un clima di insopite rivalità dada-simbolico-surrealiste. Inoltre i veri protagonisti erano tutti assenti: ovviamente il celebrato poeta, ma anche l’autore del bronzo «ovidiano», Picasso, rimasto nel suo castello di Vauvenargues, nei pressi della montagna Sainte-Victoire, così cara a Cézanne, e infine, Dora Maar, il modello vero della testa attribuita a chi non poteva protestare.
La grande fotografa e mediocre pittrice, amante infelice tradita e usata come suo cencio dall’ingordo «Minotauro», era ancora a Parigi (morirà novantenne nel 1997), ma viveva sepolta viva in casa, come altre celebri ex-femmes fatales, piena di carabattole in sfacelo ma anche di opere picassiane circuite da avidi mercanti; non voleva vedere più nessuno, non apriva a nessuno, in preda a crisi mistiche che certamente il giovane Jacques Lacan, suo «curatore», avrà vieppiù esacerbato – perché, è cosa nota, Lacan, destinato a diventare nel secondo Novecento uno sciamano, un guru della borghesia radical-chic europea e, indubbiamente, una delle menti più intelligenti e profonde del pensiero psichiatrico-filosofico, era come terapeuta-praticante un disastro: guai a capitare sotto le sue istanze-grinfie.
Ma torniamo al «grottesco» – e uso il termine come lo intende Montaigne: l’insolito, lo stupore nella varietà e stranezza – che Restagno abilmente ricostruisce, sciogliendo i nodi che Lévi-Strauss avrebbe definito mitico-letterari (cfr. Le regard éloigné, uscito da Plon nel 1983, in particolare il saggio sulla poesia apollineriana Les colchiques). Restagno ritrova già in un romanzo di Apollinaire, Le poète assassiné, le discussioni e prefigurazioni intorno al monumento funebre. Nel romanzo l’autore appare nel nome di Croniamantal e il pittore amico in quello di Oiseau du Bénin. Per Picasso, quando fu incaricato del progetto, bisognava rispettare l’idea di «astrazione», in qualche modo testamentaria, di Apollinaire. Ma, in quegli anni il pittore, tra l’altro da poco iscrittosi al Partito comunista francese, era inviso a molti, per non parlare dei vari funzionari governativi. Sentiva chiaramente le avversioni a ogni sua proposta. Per cui, l’idea di far passare di Dora Maar come quella di Apollinaire andrebbe letta non quale spregio al caro e lontano defunto, del resto da lui dipinto già più volte, tra cui in un suo capolavoro, Les Trois Musiciens, bensì come uno sberleffo al comitato e all’ufficialità, pronti ad accettare anche un palese falso. Ma noi sappiamo, inoltre, che in Picasso, più che in qualsiasi altro artista, ogni forma, ogni oggetto può mutare senso e segno, acquisire significazioni opposte o parallele.
«Picasso fu abitato dalla metamorfosi più profondamente che dalla morte», scrive nel saggio citato Malraux, e Restagno sottolinea la passione del pittore per Ovidio. Quindi resta un’ambigua e sospesa intenzionalità in quella testa scambiata; che, oltre tutto, più tardi, nel 1999, fu anche rubata o divelta da teppisti dalla square Laurent-Praches, dove questa giaceva, nei pressi della chiesa di Saint-Germain-des-Prés, per essere poi ritrovata nel 2001 casualmente nel comune di Osny, e restituita agli sguardi ormai indifferenti dei turisti del V arrondissement.
Di questo parla Restagno, visibilmente divertito, e di ben altro, disintrecciando le numerose fila che coinvolsero una società artistica la cui ricchezza ancora oggi ci lascia stupefatti, ammirati e, perché no, non poco melanconici: anche per come questo libro fa rivivere fascinosamente quel mondo, oggi davvero per tanti motivi «post-moderni» definitivamente scomparso.