Quando nasce Duca Lamberti, il medico radiato dall’albo per eutanasia di Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro, I milanesi ammazzano il sabato, i quattro romanzi-capolavoro di Giorgio Scerbanenco che sul finire degli anni sessanta segnano il decollo inarrestabile del noir italiano? Nella bellissima biografia Il fabbricante di storie (La nave di Teseo, 2018), che la figlia Cecilia gli dedica, si moltiplicano i riferimenti al momento fatidico in cui il noir si affaccia nella debordante attività di un maestro della narrativa popolare addirittura anticipando almeno in parte l’identikit del grande, struggente personaggio in lotta con la vita.

Se le novelle cinematografiche che appaiono in «Cinema Illustrazione» nel ’34 sono poco più di un omaggio alla natura mitopoietica del cinema americano i sette racconti «tutt’azione» pubblicati tra il ’36 e il ’37 sul «Secolo Illustrato» sono decisamente sintonizzati sulla forza trascinante dell’hard boiled school. Subito dopo, tra il ’41 e il ’42 Sei giorni di preavviso inaugura la serie di Arthur Jelling, il timido archivista di Boston, l’unica concessione dell’autore alla detection classica, un solitario, un emarginato né più né meno di Duca Lamberti.

Mentre prosegue la guerra del Minculpop nei confronti del giallo, nel ’42-’43 resta inedito il curioso L’isola degli idealisti (ma recuperato da Cecilia Scerbanenco per La nave di Teseo, 2018), che nei piani di redenzione escogitati dal protagonista sembra anticipare gli spericolati esperimenti sociali di Duca Lamberti e della kantiana Livia Ussaro nella Milano del boom. Il Diario del 1947, trovato tra le carte dello scrittore, non è solo il documento straordinario del dolore e della rabbia di un momento particolare, ma anche la testimonianza dell’intransigente amarezza che affiora nel ciclo dei romanzi e dei racconti noir: «Forse è bene che in tutti gli uomini vi sia una certa dose, se non di malvagità, di inconcludenza che porta al male».

Il sistema Scerbanenco esplode all’interno del Pianeta Rizzoli di piazza Carlo Erba, 6, che punta sull’affermazione di massa del rotocalco. Senza trascurare la fase degli inizi e la parentesi mondadoriana, la grande stagione è quella del dopoguerra, del ritrovato rapporto con Angelo Rizzoli. Centrale è la ripresa della collaborazione a «Novella» dal ’45 al ’66, innescando il processo di fidelizzazione di chi all’epoca attendeva con ansia di poter leggere la nuova puntata. Nello stesso periodo sono fondamentali «Bella» e «Annabella» che prima condirige e poi dirige curando con grande impegno il rapporto con i lettori, anzi le lettrici, attraverso le rubriche della piccola posta e delle «Lettere segrete». La corrispondenza di «Bella» è firmata da Valentino e di «Annabella» da Adrian: un capolavoro di sapienza colloquiale e di affettuosa disponibilità. Nelle migliaia di pagine di vent’anni di lettere c’è il segreto di Scerbanenco, la soglia più profonda della sua bottega artigiana. Nessuno disponeva più di lui di un osservatorio privilegiato sulla vita delle donne in quel cruciale ventennio, della famiglia, dei mariti, dei figli, della casa, dell’abbigliamento. Sui drammi della coppia in una società ancora arcaico-patriarcale in cui l’assenza del divorzio finiva inevitabilmente con il disegnare tutta una serie di percorsi obbligati e prevedibili. Sui drammi della porta accanto in un contesto sociale segnato dalle strategie dell’apparenza e dagli steccati del pregiudizio.

Nonostante le convenzioni dell’epoca il privato delle lettrici finisce nero su bianco nelle pagine dei due rotocalchi, animando un sovrabbondante materiale narrativo che è alla base della prodigiosa produzione romanzesca del periodo. Ma se l’ostentato disinteresse per i problemi dei generi e del consumo popolare che in una società letteraria ottusamente tradizionalista come quella italiana non avesse ritardato lo studio dell’industria culturale ci saremmo accorti molto prima della natura del tutto particolare del rosa dello scrittore, che non è poi così lontano dal nero, anzi si organizza spesso nell’intreccio di generi e sottogeneri diversi. Avrà ragione Oreste del Buono quando dice che Scerbanenco ha narrato l’amore come un delitto e il delitto come un amore? Certo, nei suoi rosa in cui domina la strategia del desiderio, gli ingredienti del crimine, del drammatico e perfino del tragico sono sempre presenti in bella vista nel testo, o nei sottotesti più profondi. Come del resto nel nero, anzi nel noir la dialettica del crimine non trascura mai la componente fondamentale dei sentimenti e delle emozioni, al centro dei comportamenti del protagonista. Vogliamo dirlo con una sola parola? La tenerezza.

Sarebbe bello poter seguire il processo attraverso il quale dalla fine degli anni cinquanta alla metà dei sessanta nei racconti di Scerbanenco infaticabile traghettatore di generi – come dimenticare le sue spy-stories e i suoi western? – si afferma progressivamente il noir. Sarebbero dei test perfetti i racconti di una pagina e mezza, due pagine, dove la complicità del lettore è essenziale per cogliere la provocazione della sintesi estrema e completare la scrittura enigmistica con il prima e il poi del rebus cifrato.

Naturalmente sappiamo che, per quanto riguarda i romanzi, la svolta è avvenuta quando lo scrittore, lasciata la direzione delle riviste dove si sentiva perseguitato dall’obbligo contrattuale del lieto fine, comincia a scrivere per sé. A partire dal dattiloscritto di Venere privata che spedisce all’amico del Buono con la nota lettera: «Questo è il romanzo. È stato scritto con sacro furore e con sottile gioia. Non ti spaventare del mio entusiasmo, forse sono un po’ cosacco e ormai sono lanciato, ma sto passando al secondo ‘Nero’ con lo stesso protagonista». A cui OdB risponde con il telegramma, anch’esso passato alla storia, «Il romanzo è bellissimo!».

Scerbanenco ha sempre scritto con furore e gioia cercando il contatto diretto del lettore attraverso il filtro del suo vissuto personale, segnato dal trauma dell’esistenza, in grado di assicurare il cortocircuito emotivo che anima le pagine dei romanzi più celebri e quelli di tanti racconti sparati a raffica.

Nei paradisi neri dove gli uomini sono nemici, laggiù o lassù non lo so, quando s’incontrano Enko e Mezzo Toscano, così si chiamavano Giorgio Scerbanenco e Oreste del Buono, evitano di parlare dei massimi problemi e con l’asciuttezza dei timidi rievocano le epiche gesta di piazza Carlo Erba,6, dove avevano i loro uffici uno accanto all’altro, e Scerbanenco, che ormai in piena sindrome noir si divertiva a far fuori il maggior numero possibile di cattivi, gli diceva: «Ma sai quanti ne ho ammazzati oggi?»