Il colore del nome (Solferino, pp. 288, euro 17,50) il notevole libro di Vittorio Longhi, giornalista italo-eritreo di diritti umani e questioni internazionali del New York Times, è un ibrido riuscito, una avvincente narrazione a matrioska che mette insieme memoir autobiografico e di formazione, romanzo storico famigliare e reportage giornalistico in un arco temporale che va dal settembre 2012 all’aprile del 2014, quando l’autore è in viaggio per lavoro tra Amman, Bruxelles, Il Cairo e Lampedusa, dove arriva dopo il naufragio del 3 ottobre 2013.

Ma si può leggere anche come un manuale sul mestiere del giornalista, soprattutto di chi racconta esodi, naufragi in mare, fughe di migranti da paesi imbarbariti da feroci dittature militari e povertà, di cui con onestà e rimorso l’autore denuncia lo stato di «turista, uno che non va oltre lo scatto frettoloso o peggio ancora l’esibizione compiaciuta del proprio impegno». Sono anche stili, modi, diverse narrazioni che convivono e concorrono a dare vita a un libro di grande forza espressiva che proprio attraverso il racconto – che alterna la prima e la terza persona, tra ieri e oggi – riesce a collegare il nostro passato coloniale di «italiani brava gente» al presente attraverso una vicenda privata, quella dell’autore, che fa i conti con la propria storia e le sue origini.

IL RITORNO DI MEMORIA, la scheggia che muove la trama, è un messaggio che Vittorio Longhi riceve dalla cugina Aida K., una persona che non conosce, la quale mentre lui si trova nel campo profughi di Zaatari, nel nord della Giordania e al confine con la Siria, gli dice che suo padre Pietro è tornato ad Asmara, «temiamo che abbia avuto problemi con il regime», scrive laconica. «Erano diciotto anni che nessuno mi chiedeva di mio padre», racconta l’autore.

Dal reportage narrativo e giornalistico in presa diretta, presto il lettore è catapultato nel passato in una storia dal tono epico, avventuroso e piena di colpi di scena, che comincia più di un secolo prima in Eritrea nell’inverno del 1890, quando il sottufficiale piemontese Giacomo Longhi s’imbarca al porto di Genova con centinaia di commilitoni del Corpo Speciale Africa, e finisce sugli altopiani di Keren, a cento chilometri da Asmara.

Conosce Gabrù – che in realtà viene portata da lui dalle suore vincenziane che l’hanno cresciuta in orfanotrofio – una ragazza abissina di sedici anni vittima del madamato però per niente remissiva e pronta alla sottomissione, che invece «ostentava un misto di fierezza e di distacco, quasi una forma di superbia», scrive Vittorio Longhi.

In queste pagine dense d’ambientazioni e di fatti l’autore ricostruisce dal vero la memoria del parentado tramandata da generazione e generazione, quella storia orale che è una delle pagine più vergognose del nostro passato e dell’Impero mussoliniano, fatte di leggi razziali, atroci violenze, come il massacro dei copti del monastero di Debra Libanòs del 1937, duemila persone fatte fucilare dal generale Graziani, o l’iprite scaricata dagli aerei italiani, e di donne «abbandonate con i figli meticci come vuoti a perdere, scarti della memoria».

IL LASCITO DI QUELLA STORIA sono i degalà, i bastardi nati da quell’unione, «un elemento imprevisto e incomprensibile, un effetto collaterale dell’occupazione italiana», come Vittorio, il nonno dell’autore, che accetta un incarico da Amedeo di Savoia per trattare con i ribelli etiopi e muore durante un’imboscata mentre ha in braccio Pietro, suo figlio, a sua volta padre dell’autore del libro ma che quest’ultimo incontra una sola volta, regalandoci pagine molto intense.

Si trattava di una figura di grande carisma («affascinava le donne italiane perché aveva quel tipo di bellezza che allora molti definivano esotica») e perturbante presenza, eternamente in fuga da se stesso e dalle proprie ossessioni, che lo ha messo al mondo dopo una relazione con sua madre prima di scomparire, portandolo nel suo destino e in quello della Storia, quello del colore del nome evocato dal titolo di questo romanzo dal vero. Lo cercherà alla fine in Eritrea, ad Asmara prima, poi a Keren, «suggestiva e triste nel suo abbandono, struggente come un corpo in una lenta agonia», quello che appena arrivato gli sembra «il posto ideale per le stelle».