L’anno che si è chiuso si è portato via anche il Quantitative easing, il programma di acquisti di titoli pubblici e obbligazioni private sul «mercato secondario» (dalle banche) lanciato dalla Bce a marzo del 2015, dopo lo shock finanziario seguito alla crisi dei subprime.

Un’operazione da 2600 miliardi di euro (2.109 miliardi di titoli di stato dell’area euro, il resto costituito da obbligazioni emesse da banche e società e da crediti cartolarizzati).

L’INTERRUZIONE non sarà traumatica (i titoli a scadenza saranno reinvestiti), ma i benefici per le finanze pubbliche necessariamente si ridurranno.
È anche per questo che gran parte delle istituzioni indipendenti, nazionali ed internazionali, prevedono uno scenario rischioso per il nostro Paese nei prossimi anni.

Ma andiamo con ordine.

Quando parliamo di Banca Centrale Europea faremmo bene a ricordare che la stessa è solo un pezzo del «Sistema europeo delle banche centrali» (Sebc), l’insieme delle banche nazionali che, come il Qe ha dimostrato, non hanno perso del tutto le proprie prerogative in materia di politica monetaria, sebbene in un quadro di condivisione delle scelte su base transnazionale.

Sono state le banche centrali nazionali ad acquistare i titoli dei loro rispettivi Paesi, accollandosi l’80% del rischio di insolvenza (il restante 20% è condiviso tra banche nazionali e Bce).

Uno schema di relazione tra banca centrale e tesoro che, sebbene mediato dal «mercato secondario», ha evocato il rapporto tra governi ed istituti di emissione prima dei cosiddetti «divorzi».

Qualcuno, addirittura, ha paragonato l’operazione ad una strategia di «monetizzazione del debito». Esagerato. I titoli acquistati dalla banca centrale non sono «irredimibili», possono essere rimessi sul mercato e vanno rimborsati.

Certo è che in questi anni, se da un lato il beneficio di questa politica monetaria espansiva è stato quasi nullo per l’economia reale (l’obiettivo di un’inflazione «vicina al 2%» nella zona euro si sta di nuovo allontanando), la stessa cosa non si può dire per i bilanci pubblici.

PAESI COME L’ITALIA, con un debito pubblico elevato, non solo hanno guadagnato sul contenimento del «servizio del debito» (circa 30 miliardi in meno in tre anni sul groppone del bilancio statale), ma anche dalle compensazioni tra banca centrale e tesoro.

A titolo esemplificativo: la banca centrale compra dalle banche private titoli di stato che, a scadenza, fruttano un po’ di interessi. Tolta la quota spettante agli istituti che «partecipano» al suo capitale (sono 118 le banche e le fondazioni che detengono le quote di Bankitalia), la restante parte di questi (gli interessi versati), oltre alle tasse, ritorna nelle casse dello Stato.

UNA PARTITA DI GIRO, che ha assicurato allo Stato una gestione a costo (quasi) zero di una parte del proprio debito (il valore dei titoli detenuti da Bankitalia è pari a 360 miliardi di euro).

La dimostrazione, per altri versi, di come il denaro, nella nostra epoca, costituisca innanzitutto una costruzione sociale e politica, prima ancora che una cosa in sé.

Cosa succederà adesso? Che gli «acquisti netti» scenderanno a zero e ad essere (re)investiti (fino a quando?) in titoli della stessa «giurisdizione» saranno solo i proventi derivanti dal rimborso di obbligazioni a scadenza.

Gireranno gli stessi soldi. Meglio di niente, considerando gli effetti che un totale disimpegno delle banche centrali avrebbe potuto avere sulla stabilità dei conti pubblici di Paesi come l’Italia alle prese con la fragilità della propria finanza pubblica. Troppo poco, pensando ai limiti strutturali del sistema su cui poggia la moneta unica.

Intanto, tra chi presta il denaro, c’è chi pensa di correre ai ripari. I timori per la fine del Quantitative easing, uniti a quelli per il rallentamento dell’economia globale (pesa molto la frenata dell’economia cinese), stanno spingendo molti investitori a «rifugiare» i propri soldi in titoli più «affidabili», come i bund tedeschi.

QUESTO SPIEGA PERCHÉ i rendimenti di quest’ultimi stiano tornando prossimi allo zero (ora allo 0,18% contro il 3% del decennale italiano) e potrebbero scendere anche sotto tale soglia, determinando, come di fatto sta accadendo, un allargamento del differenziale con i rendimenti dell’omologo titolo italiano (lo spread è tornato sopra i 270 punti base).

Asimmetrie di un’Europa ancora tutta da costruire, dove alcuni Stati sono strangolati dal debito, mentre altri con i debiti possono anche guadagnarci.