Sono Tempi difficili per la nostra amata costituzione, ma anche per noi costituzionalisti. Allo «smarrimento» dei costituzionalisti (al nostro disagio), è dedicato l’ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky (Tempi difficili per la Costituzione. Gli smarrimenti dei costituzionalisti, Laterza, pp. 144, euro 15). Una critica appassionata, espressa a volte con toni indignati, a volte con un rivendicato moralismo, altre volte persino con un non contenuto eccesso polemico.

MA COSA C’È POI di così estremo nelle riflessioni di Zagrebelsky? Forse l’affermazione che i costituzionalisti «hanno cessato di esistere»? Oppure la tesi che la scienza di cui disponiamo noi costituzionalisti alla fine «diventa una cortigiana, alla quale chi dispone del potere politico, economico e culturale può rivolgersi per giustificarsi facilmente»? Ovvero, ancora, la constatazione – una constatazione, prima ancora che una critica – che sono stati numerosi i costituzionalisti che hanno preparato i concetti, il linguaggio e il clima della «diaspora», del tramonto del costituzionalismo del trentennio d’oro a favore di un altro costituzionalismo di natura «congiunturale»? O forse l’accusa ritenuta infamante, ma in verità da sempre incombente per chi esercita una professione intellettuale, di porsi al servizio del potere, non per credo, ma per bieco interesse? O, infine, la distinzione tra coloro che rimangono «costituzionalisti» – che continuano a dedicarsi alla costituzione – e i meri «costituzionisti» – che invece operano sul terreno costituzionale, ma fuori dalle ragioni del costituzionalismo e quindi, eventualmente, anche contro il costituzionalismo?

TUTTE CRITICHE RADICALI quelle espresse nel volume, eppure la questione più inquietante è un’altra: i costituzionalisti – intesi come ceto e non come singoli – hanno perso la vocazione. Ciò che è veramente importante perché si pone alla base della weberiana scienza come professione.
Non si tratta di rimpiangere la nostalgica perdita di una cieca fede, ma – al tempo del disincanto – il disorientamento prodotto dall’incapacità di riconoscere almeno una laica wissenswert (un oggetto degno di essere conosciuto). «Nel campo scientifico – ci ricorda Max Weber – ha una sua ‘personalità’ solo chi serve puramente il proprio oggetto (Der Sache)».
Ci si deve allora chiedere se lo «smarrimento» di cui ci parla Zagrebelsky non tragga origine dalla perdita, nei meandri dello specialismo, dell’oggetto dei nostri studi.
Ad un certo punto nel libro si legge che c’è una distinzione concettuale e una distanza essenziale tra coloro che ragionano sui principi e coloro che ragionano sui fatti. Fermi ai nudi fatti, ci si arrende ai precedenti, che in verità sono un’àncora preziosa se si vuole evitare di andare alla deriva in tempi di burrasca; ci si aggrappa alla tecnica giuridica, che rappresenta un rifugio prezioso, poiché ci permette di non interrogarci sui perché, di non avere paura, di non alzare lo sguardo per vedere le convulsioni della storia sociale, culturale e politica, di assicurare in ultima analisi a noi «costituzionalisti» un nostro ruolo: quello di «tecnici».

ED È QUI CHE COGLIAMO il punto di caduta. Precipitati nel vuoto della tecnica abbiamo perduto l’orizzonte complessivo entro cui si dovrebbero sviluppare le nostre ricostruzioni. Non dovremmo scordarci che ciò che legittima l’operato dei costituzionalisti non è la tecnica, né la politica, né la convenienza, né il fine (che può giustificare ogni mezzo). È solo unser Sache (il nostro oggetto di studio), sono solo le norme della costituzione, che ci autorizzano a «parlare dalla cattedra», svolgendo la nostra funzione senza essere né profeti né demagoghi.
Così descritto il ruolo dei costituzionalisti può apparire un po’ troppo «austero», quasi «sacerdotale». È però questa la condizione propria dei «sapienti» (contrapposti ai tecnici del fare). Un ruolo che deve essere svolto con una doppia consapevolezza: quella della forza prescrittiva dei principi posti, ma anche della precarietà delle interpretazioni date.
I costituzionalisti non dovrebbero aspirare alla neutralità del vero, ma alla parzialità della storia e alla necessità di una lotta per l’inveramento dei diritti costituzionali e la limitazione dei poteri selvaggi.

UN COMPITO, quello appena delineato, ritenuto oggi troppo gravoso ovvero semplicemente inutile. Non è questo il tempo dei costituzionalisti, sembra suggerire Zagrebelsky. Non ci sono le condizioni per poter esercitare la scienza come professione. Se anche questa visione fosse vera, ma non ci si volesse arrendere al nichilismo, non ci rimarrebbe che una via, quella di creare le condizioni per cambiare il tempo nel quale viviamo: riscoprire il ruolo del pensiero critico e del costituzionalismo come progetto di civiltà. Personalmente non vedo alternative, se non vogliamo arrenderci al presente o fuggire da esso.

FORSE OGGI i costituzionalisti «austeri» si trovano dinanzi ad un bivio. Possono prendere in considerazione l’ipotesi di andare nei monasteri, per poter svolgere nell’Eremo e in libertà le loro pratiche sacerdotali. Da bravi monaci amanuensi potrebbero riuscire a conservare la memoria del sapere umanistico, per un futuro che certo verrà, ma che non dipende da loro.
Non un compito da disprezzare, ma senza pathos, senza vita. L’alternativa è ricominciare la «lotta per la costituzione» imbracciando le armi della critica, imboccando la via della gramsciana filosofia della praxis, magari con un po’ di sano moralismo che può anche irritare, ma di cui abbiamo estremo bisogno oggi in questi tempi crudeli.