Due minuti di musica eterea per una sequenza in bianco e nero che dallo skyline di una città distesa verso il mare, si abbassa lentamente a cercarla nei dettagli. Palazzi massacrati dalle bombe, panni stesi di un bucato e tende lacere di una casa vuota, lo scorcio di una moschea reciso da un ponte, l’onnipresenza delle macerie e delle gru. Poi una voce «Mi chiamo Giles Duley, sono un fotografo documentarista. Sono venuto in Libano molte volte, ma mi sono sempre occupato dei rifugiati».

Giles Duley, inglese, quarantasei anni, le gambe e la metà del braccio sinistro persi nell’esplosione di una mina antiuomo, Afghanistan, 2011.

GILES DULEY

«Sono a Beirut per un progetto che punta a capire cosa definisce un artista, cosa lo ispira al di là dell’arte: l’odore, il gusto, l’atmosfera di una città, Cosa, alla fine, fa nascere un artista». Cominciano così i ventisette minuti di Shame and Soul, documentario del regista Marco Pavan per Fabrica, centro di ricerca sulla comunicazione. Il documentario, presentato in anteprima alla Fondazione Benetton lo scorso tre marzo, si inserisce nel progetto Imago Mundi. Ed è proprio tale progetto a stemperare le istintive perplessità. Parlare di arte qui sembrerebbe fuori luogo. Meno lo è se si considera che Imago Mundi ha radunato, ad oggi, le opere non profit di diciottomila artisti contemporanei da cento Paesi, realizzate per disegnare una mappa delle culture fuori dall’ambito dei musei. Shame and soul, vergogna e anima. Marwan Sahmarani è nato e vive a Beirut. Il disordine del suo studio somiglia al disordine di ogni studio di pittore. Ben diverso ciò che risponde a Giles, quando gli chiede cosa rappresenti per un artista l’idea di identità, fuori dalle etichette assegnate «A Beirut, pochissimi dicono ‘sono libanese’. Se lo fanno, aggiungono ‘sono libanese, ma anche…’. Penso che sia un problema di tutti gli artisti mediorientali. Non vogliono essere etichettati. Molti di loro fanno dipinti in stile orientale, molti non hanno nulla a che vedere con questo stile. Ed è bello».

Non lo è per chi, a Londra, ironizza Duley, considera molto cool avere in galleria un pittore arabo. Marwan lo interrompe «Se qualcuno arriva con qualcosa di più poetico, subito ti dicono ‘Oh no! Dov’è il palazzo distrutto, dov’è l’esplosione? In un certo senso è una forma di neocolonialismo. La mia pittura, se voglio darle un aggettivo, è violenza, esilio. Tutto è legato alla mia vita, al mio passato, alla mia famiglia. Veniamo tutti da una famiglia distorta, veniamo tutti da decenni di violenza». Mentre Giles la fotografa, Tagree Darghouth pittrice nata a Sidone, si racconta. È arrivata a Beirut per fare l’università, ci è rimasta, ama e odia la città «Lavoro su temi legati a questioni sociali e politiche, in questo momento su tutto ciò che riguarda la sorveglianza, tv a circuito chiuso, droni, satelliti».

SEMAAN KHAWAM

Gli uomini con un uccello sulla testa dipinti da Semaan Khawam, Giles Duley li aveva visti nel catalogo Siria di Imago Mundi. In Libano, questa volta, ci è venuto soprattutto per incontrare il pittore, scultore e graffitista quarantenne di Damasco, esule a Beirut dal 1988. L’immagine di un militare su un muro del quartiere di Gemmayzeh, nel 2012, gli è costata l’arresto. Vietato ricordare gli orrori dei quindici anni di guerra civile, dal 1975 al 1990. Seeman, viso affilato, barba, occhiali, parla a voce bassa. «Se fossi rimasto in Siria, sarei una persona completamente diversa. Essere un giovane siriano in Libano, allora non era facile. Ho dovuto nascondere la mia identità e crearmi un’immagine nuova. Per tanto tempo ho sentito che non ero benvenuto quando scoprivano che non sono siriano. Dovunque vai, la prima domanda è ‘Da dove vieni?’, e io vivevo a Beirut Est, la parte cristiana in cui i siriani hanno commesso vere atrocità». Perché quelle teste umane sormontate da uccelli? «È un’idea di libertà. Gli uccelli non hanno confini. Ma sono davvero liberi? Alla fine, è tutto una grande gabbia. Nei miei dipinti, l’uomo cade come un uccello che precipita. E allora, sembrerò matto…». Khawam tira fuori dal congelatore un uccello trovato morto per strada e se lo mette sulla testa «Questo, per me, è il mondo. Il vero lavoro, la vera battaglia è qui. Non voglio lo status di rifugiato perché non lo sono».

LA SCUOLA

Di rifugiati siriani la Valle della Bekaa ne conta a migliaia, parte di quel milione e mezzo che con i quattro milioni di abitanti costituisce il popolo della terra dei cedri. Vivono in campi chiamati ‘informali’ poiché lo stato non ne riconosce ufficialmente la presenza. Giles ci ha trascorso molte settimane, ed è lì che porta Seeman a incontrare i bambini della scuola di Beyond «I laboratori aiutano i piccoli a creare un processo che restituisca loro la capacità di esprimere quello che hanno vissuto e che non riescono a raccontare». Arte pura nella sua spontanea semplicità, secondo Duley. Dieci minuti gestiti con una regia e un montaggio sempre lontani dalla retorica, restituiscono allo spettatore lo sguardo smarrito dell’artista; lo sguardo di un siriano divenuto anche libanese, che parte di quella tragedia l’ha conosciuta, però da esule volontario e con un frammento di speranza. Canta, il coro, una canzone per Shaman, Damasco, e non serve traduzione per capire che non è una filastrocca.

Il libro aperto, la voce velata dall’emozione, un ragazzino, avrà otto anni, recita la sua poesia ‘Sono un bambino e mi hanno bruciato i giocattoli/ Sono un bambino e mi hanno bruciato la casa e ucciso mio padre/ Perché devo andare a lavorare ?/ Non sono un uomo, sono il bambino più carino’. I bambini cui Khawam chiede un autoritratto, restituiscono sui fogli facce sorridenti, le stesse della foto di gruppo al momento del congedo. Ma non sarà un congedo per il pittore degli uomini con un uccello sopra la testa. Sulla strada del ritorno dirà a Giles «Per la prima volta sento che posso fare qualcosa… Quando è così, l’arte è una via». L’arte è quel frammento di speranza che Seeman, adesso, può consegnare ai bambini senza patria della Bekaa.