Dietro la porta a vetri, nell’ala nuova del Museum of Fine Arts di Boston, una giovane donna dai capelli lunghi e corvini – sdraiata – è lì ad attirare lo sguardo del visitatore. Una visione languida e seducente che stimola l’immaginario sulla falsa riga dei pittori orientalisti. Falsa, appunto, perché nel trittico fotografico della marocchina Lalla Essaydi, Bullets revisited #3 (2012), la figura femminile guarda dritto negli occhi dell’osservatore che, solo in un secondo momento, si rende conto che il pattern che forma una fitta rete d’oro e d’argento altro non è che un proiettile. Mentre la scrittura, come un mantra, circonda le sue sopracciglia, scende sul naso, aggira le labbra per proseguire sul collo, sulle braccia, sulle mani, sul vestito, sui piedi. L’hennè si solidifica sull’epidermide durante la lunga posa che precede lo scatto. Ma il velo nostalgico lascia il posto ad un messaggio implicitamente esplosivo che allude ai conflitti psicologi, sociali, religiosi, geo-politici che le donne vivono sulla propria pelle.

Questo è il filo conduttore della mostra She who tells a story: women photographers from Iran and Arab world, a cura di Kristen Gresh (fino al 12 gennaio 2014), in cui sono le donne a parlare di sè e della sfera che le circonda.
Questa prima esposizione che un museo nordamericano dedica alla fotografia di autrici provenienti dai paesi arabi e dall’Iran, è la testimonianza di una apertura verso tematiche che nell’era post 11 settembre erano ancora in parte subordinate a pregiudizi.

Identità da decostruire

L’esposizione riflette gli sviluppi di una ricerca personale che la curatrice ha sviluppato negli ultimi quindici anni, soggiornando a lungo a Parigi per il master in storia dell’arte all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e al Cairo, dove ha insegnato storia della fotografia all’American University. Ma il suo approccio inizialmente connesso con la fotografia documentaria si è gradualmente orientato verso una visione più ampia che è anche il frutto di un dialogo con vari esperti, tra cui Michket Krifa (autrice di un testo in catalogo), sintetizzata nel percorso espositivo dai tre nuclei tematici: «decostruzione dell’orientalismo», «costruzione delle identità» e «nuova documentazione».

Il museo di Boston ha potuto contare, poi, sull’acquisizione di 18 lavori delle dodici artiste – Lalla Essaydi, Boushra Almutawakel, Rania Matar, Shirin Neshat, Newsha Tavakolian, Shadi Ghadirian, Gohar Dashti, Rana El Nemr, Tanya Habjouqa, Rula Halawani, Nermine Hammam e Jananne Al-Ani – una scelta consapevole che è anche indice di una certa autonomia rispetto ad eventuali interferenze da parte del mercato dell’arte.

Utilizzando linguaggi diversi queste artiste provenienti da Egitto, Giordania, Libano, Marocco, Palestina, Yemen e Iran, propongono le loro riflessioni individuali in cui è possibile rintracciare degli elementi ricorrenti. Intanto la nozione del tempo che è ribaltata, catapultata in una dimensione anacronistica in cui il presente è esplicitamente un ritorno al medioevo, come nella serie Mother, Daughter, Doll (2010) della yemenita Boushra Almutawakel. Le nove fotografie hanno inizio con il ritratto colorato e sorridente di una mamma con la figlioletta e la bambola che gradualmente perdono la loro identità, sempre più coperte e circondate di nero, fino a diventare solo sei occhi dietro una fessura e perdersi completamente nel buio che lascia intuire l’ombra del drappeggio di uno chador.

Un’altra trascrizione del silenzio imposto alle donne è tradotto in modo struggente da Newsha Tavakolian, quando nel video Listen (2010) le cantanti iraniane muovono le labbra ma il loro canto è muto: solo agli uomini è permesso di cantare in pubblico. Ma l’oppressione diventa per loro un punto di forza, icona di ribellione e resistenza. Più ironicamente Shadi Ghadirian, anche lei iraniana, nella serie Quajar (1998) introduce ad altri divieti. In una di quelle sue foto seppiate che sembrano arrivare da un’altra epoca due velate, sedute in un interno, reggono in mano uno specchio che riflette il loro sogno proibito: libri sugli scaffali di una libreria.

Prima di loro Shirin Neshat ha fatto strada con le sue Women of Allah (1993-97), di cui in mostra vediamo alcuni autoritratti con i suoi inconfondibili occhi sottolineati dal kohl che emanano bagliori di malinconia. Di Neshat, vincitrice del Leone d’Oro a Venezia nel 1999 con Turbulent, tra le opere esposte c’è anche qualcosa della nuova serie Book of Kings (2012) in cui si ispira al poema epico persiano Shahanameh. I ritratti in bianco e nero di giovani uomini e donne, in cui la calligrafia invade il volto e le altre parti scoperte del corpo sono protagonisti del «movimento verde» e della primavera araba, emblema perciò della protesta contro un regime corrotto e iniquo. Giovani uomini come Ahmed, Kouross e Mosaeb sembrano aver ben poco in comune con l’idea del maschio oppressore, violento, distruttore, guerrafondaio come è sottinteso in altre opere della mostra, ma l’ambiguità è latente.

L’elmetto e il foulard appesi uno accanto all’altro in Nil, Nil #4 (2008), altro lavoro fotografico di Shadi Ghadirian, è piuttosto emblematico: sono gli uomini a decidere e a fare la guerra, ma i conflitti sono anche tra le mura domestiche.

Parlando di guerre forse il lavoro più doloroso è Negative Incursions (2002) della palestinese Rula Halawani che enfatizza il dramma di cui è testimone – i raid israeliani nel West Bank nel marzo 2002 -, ricorrendo a grandi foto stampate in negativo. Nelle sue foto il cemento si sbriciola mettendo allo scoperto l’armatura di ferro, donne e bambini accampati, tank che avanzano e tra le macerie una foto di Arafat, l’ultima speranza.

Le ragazze di Gaza

Più subdola è la guerra che circonda una coppia di sposi, insinuandosi nella quotidianità. Torniamo all’ironia (amara) con l’iraniana Gohar Dashti che nella serie Today’s Life and War (2008) sceglie il deserto per la sua messinscena. Un deserto definito dal filo spinato, dai carri armati, dai sacchi di sabbia e da tutti gli altri ingredienti formali della guerra. Ma la giovane coppia, per nulla turbata, convive con il pericolo stendendo, magari, i panni sul filo spinato o mangiando seduti intorno ad una tavola imbandita sotto la mira di un carro armato. Una resistenza silenziosa e per nulla passiva.

Un po’ come quelle dodici alunne palestinesi in divisa (hijab bianco e grembiule blu) che guardano Gaza dal mare, nel barcone a motore che sventola bandiera palestinese, attente a non andare oltre le 6 miglia dalla costa per non rischiare ripercussioni dalle autorità israeliane: la foto della serie Women of Gaza (2009) è della fotografa giordana Tanya Habjouqa.

Hijab o meno tutte le ragazze, ovunque nel mondo, hanno gli stessi sogni, le stesse perplessità, dubbi, paure, gioie: su questo punto insiste la libanese Rania Matar che è cresciuta in un campo profughi palestinesi prima di andare a studiare negli Stati Uniti. A girl and her room (2010) parte proprio dall’osservazione della figlia maggiore, Lara, e delle sue amiche ed è una riflessione in punta di piedi sulla psicologia delle teenager. La libertà, certamente, è il sogno più grande quando si vive nei confini di un campo profughi. Tanti racconti, quindi, tante voci e un pronome femminile: lei. «Tutto è partito dalla parola “Ramiya”, che in arabo vuol dire lei che racconta una storia – spiega Kristen Gresh – non poteva esserci titolo più adatto per questa mostra».