Deve ritenersi un evento la pubblicazione di Tutte le poesie di Franco Scataglini, tra i massimi poeti del secondo Novecento italiano: il volume (Quodlibet, pp. 969, € 36,00) è corredato da una avvertenza di Giorgio Agamben e da una prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, mentre Paolo Canettieri firma la curatela esatta, lenticolare, di un’opera che è anche un esempio di splendore tipografico e il simbolico gesto di restituzione nei riguardi di un poeta mancato quasi trent’anni fa (si spense sessantaquattrenne a Numana, nell’agosto del ’94), già riconosciuto dalla grande critica (non solo da Mengaldo ma anche da Cesare Segre che firmò la prefazione de La Rosa, Einaudi 1992) e tuttavia mai entrato definitivamente nel senso comune dei lettori a causa della annosa irreperibilità delle opere, non escluse quelle culminanti, appunto La Rosa, l’autoantologia Rimario agontano (Scheiwiller 1987) e il poema, immediatamente postumo, El Sol (Mondadori 1995).

Nel saggio introduttivo, che ha la consistenza di una monografia, Canettieri riordina linearmente gli eventi biografici e formativi, le scelte d’ordine linguistico e stilistico che hanno reso unica la vicenda di Scataglini. Nato in Ancona nel 1930, di estrazione proletaria, autodidatta, dopo una serie di false partenze nell’italiano che sente frigido e classista (il «sanscrito» del pure amato Montale…), esordisce nel ’73 con una raccolta che nel titolo, E per un frutto piace tutto un orto, richiama Jacopo da Lentini e la poesia delle origini, cioè l’invaso storico-linguistico cui Scataglini guarda per scampare la sua lingua tanto dagli standard della tradizione quanto da un vernacolo che ne sia soltanto una greve parodia.

Nasce così quello che Canettieri definisce «idialetto», una lingua d’autore, un idioletto di tipo particolare, la lingua di un trovatore che sappia però combinarsi con le sonorità più sfumate del dialetto nativo: Scataglini «ombreggia l’italiano senza oscurarlo» nota il curatore la cui opzione editoriale riproduce per cronologia le raccolte edite nel testo rispettivo di ogni princeps, unitamente a un cospicuo numero di inediti o rari e a uno splendido glossario che ha la funzione vicaria di una concordanza d’autore (in attesa della pubblicazione del Rimario già approntato da Maria Laura Palermi).

Il sublime del poeta anconitano non può che essere, in origine, un sublime dal basso, il riflesso poetico di chi in vita sua è vulnerato prima da marginalità e sfruttamento poi, in morte, da rimozione e oblìo: e sono gli individui «muti», gli esseri umiliati e cancellati dalla vita medesima cui Scataglini dà voce nello stesso tempo in cui li riconosce fraterni.

E qui va ricordato che alla sua formazione cooperano non solo Dante e i poeti delle origini riascoltati in alcuni novecenteschi (Saba, Penna, soprattutto l’amico e suo grande estimatore Giorgio Caproni) ma anche i filosofi della vita offesa quali Adorno e Simone Weil, meditati in anni impervi. No brolo per me fiolo, «nessun giardino per me bambino» è il potente attacco di un capolavoro, Carta laniena (1982), che suggella la prima fase della poesia scatagliniana dove infatti prevalgono immagini di esistenza coartata, di eros deietto e caotico, e con esse i simboli ossessivi che intanto la esprimono come il labirinto in cui erra senza requie un anonimo minotauro del proletariato, il mattatoio aggettante sulla casa dell’infanzia, cupo segno del destino, o un vecchio carcere demolito che annuncia l’alfa e l’omega di qualunque umana esistenza, «Carcere demolito, / al principio è ’l deserto», versi scritti in calce alla raccolta precedente, So’ rimaso la spina (’77). È questa la zona in cui fermenta una poesia la cui vicenda si deduce sempre da un’interiorità squassante e Mengaldo rileva, acutamente, che si tratta di «un poeta di contrasti, meglio se aspri» la cui grazia melica, nel completo dominio del settenario in strofe per lo più a rime alterne, si rivela alla lettera un «ossimoro strutturale».

E quanto a ciò, gli anni ottanta annoverano per il poeta una serie di eventi decisivi e a contrasto dei precedenti quali una lunga convalescenza, la pratica della psicoanalisi e la progressiva stabilizzazione del rapporto con colei che è musa e depositaria del nome più simbolico, Rosellina. In effetti il libro che ne esce, con il titolo indiziato di Laudario (allora edito in calce a Rimario agontano, ora ripristinato da Canettieri nella sua autonomia), da un lato denota alleggerimento del lessico e apertura tendenziale dell’impianto strofico, dall’altro vibra nello stormire dei ricordi e nel sopravvenire di figure familiari ora miti e propizie (la madre, il fratello) ora invece dileguanti e occidue (volti degli anni di guerra, fisionomie spettrali).

È da una simile rampa di purgatorio che Scataglini si accinge al suo decennio terminale e dunque alla compiuta metabolizzazione dei propri trascorsi, esistenziali e poetici, in vista di una conciliazione da sempre agognata. E non è un caso che ritorni di colpo centrale l’immagine del giardino insieme col ricordo del padre pensionato che ne possedeva uno suo e umilissimo, non certo il luogo ameno di cui dicono i classici ma un piccolo lembo di accudimento e cura dove smaltire e placare finalmente i rimpianti e i rimorsi di una vita subalterna, senza nome, senza forma né destino: «(…) ne pe’ non morì / muto com’eri stato, / m’hai lasciato un giardì» erano giusto versi inaugurali di E per un frutto, come se il poeta già alludesse a un lascito o insomma a un testamento da adempiere.

Così, si potrebbe dire che La Rosa, versione-reinvenzione della prima parte del poema medioevale di Guillaume de Lorris, è per lui il libro di una necessaria acclimatazione o meglio il prezioso vestibolo (qui Scataglini è all’apice di una inenarrabile inventiva verbale e stilistica però senza nulla concedere alle gratuità del virtuosismo) che introduce alla cosa-in-sé del suo intero percorso poetico e perciò allo spazio figurale che ricompone il disordine dell’esistenza passata trasvalutandolo nel sentimento d’amore che associa senza possibile discrimine la donna, la poesia e la vita stessa.

Se La Rosa si concludeva con la figura di Amore che incocca la freccia fatale, nemmeno è un caso che El Sol (titolo in cui si assommano un semplice acronimo, la musica e la luce del sole) assuma la forma di una ricapitolazione e anzi di un’autobiografia in versi, come se qui il poeta volesse riprendere la parola in prima persona e una volta per sempre.

Lo fa mettendo a punto uno dei suoi testi più alti e misteriosi, di vertiginosa complessità strutturale, La tortora quinaria (caposaldo della raccolta rimasta allo stadio di un progetto che Canettieri comunque documenta) e poi liberando le sequenze del grande poema, El Sol, in cui sfilano immagini della giovinezza derelitta in Ancona, i riflessi di un appassionato impegno politico (compreso un viaggio in URSS, nel ’51, disastrosamente deludente come il poeta attesta nel bel film documentario di Stefano Meldolesi, Stella vermiglia, oggi accessibile in youtube) fino a un presente ritrovato nella verticalità del pensiero-poesia: «Sul mare del frumento, / dulceza e nostalgia / de nave senza scia, / chi rivedrà più el vento?». Segno che il percorso si è ormai compiuto e che il suo iter ad Deum, la ricerca dell’assoluto, era in effetti un itinerarium mentis in Deum nella drammatica fratellanza di vita e scrittura.