Scarpe, se l’inferno è sull’Arno
La campagna «Abiti puliti» denuncia lo sfruttamento nelle concerie tra Firenze e Pisa. Nove suole italiane su dieci sono prodotte nel distretto di Santa Croce. Tra addetti in nero, precariato spinto e scarse condizioni igieniche
La campagna «Abiti puliti» denuncia lo sfruttamento nelle concerie tra Firenze e Pisa. Nove suole italiane su dieci sono prodotte nel distretto di Santa Croce. Tra addetti in nero, precariato spinto e scarse condizioni igieniche
A settembre, diciotto organizzazioni impegnate nella tutela dei diritti hanno lanciato Change Your Shoes («Cambia le scarpe») con l’obiettivo di chiarire cosa c’è dietro il mondo delle calzature che ogni mattina ci mettiamo ai piedi. Scoprendo la scarsa trasparenza sui prodotti con cui camminiamo, tassello chiave della globalizzazione. Ma la campagna ha fatto – è il caso di dirlo – un passo in più, con una ricerca che va alle origini della lavorazione delle scarpe. In Italia.
«Una dura storia di cuoio» è l’indagine che verrà resa pubblica oggi dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo e dalla Campagna Abiti Puliti (che i lettori conoscono sia per Change Your Shoes, sia per la lunga battaglia a favore delle vittime del Rana Plaza di Dacca): è una ricerca che analizza l’attività di concia della pelle. Il risultato è la scoperta di una realtà di precariato, di contratti da 4 ore, nero, ricatto della manodopera straniera, rischi di sicurezza e salute, in un clima in cui – denunciano gli attivisti – lavoratori e lavoratrici hanno paura a parlarne per non perdere il posto di lavoro. Italia o Bangladesh? No, dietro l’angolo: nel distretto di Santa Croce sull’Arno in Toscana, tra Pisa e Firenze, uno dei tre poli produttivi per eccellenza (con l’88,6% di tutta la produzione italiana) con Arzignano in Veneto e Solofra in Campania.
L’industria conciaria italiana è dominata da piccole imprese (ma molte di loro si sono internazionalizzate, dalla Serbia al Vietnam) alla ricerca di pelli a basso costo da ricollocare sul mercato mondiale. Un mercato complesso – in stretta relazione con quello della carne bovina – ma dove l’Italia è ben posizionata: i maggiori esportatori di pelli semilavorate sono Brasile, Usa e Ue. «La Ue – spiega il rapporto – importa quasi il doppio di quanto esporta. Il maggior protagonista è l’Italia, con il 76% delle importazioni europee, che importa principalmente dal Brasile e dagli Usa. Il distretto di Santa Croce – 240 concerie affiancate da oltre 500 laboratori terzisti – contribuisce al 70% di tutto il cuoio per suole prodotto in Europa e al 98% di quello prodotto in Italia».
Solo in rarissimi casi, le concerie appartengono a grandi imprese internazionali: sono altrimenti medio piccole, spesso a conduzione familiare. Il distretto impiega 12.700 persone, tra lavoratori alle dipendenze delle imprese e assunti da agenzie interinali. I primi, racconta il dossier, rappresentano il 72% del totale, i secondi il 28%. «È nelle officine dei terzisti che si concentra il lavoro interinale, dove si registrano le situazioni di maggior sfruttamento lavorativo».
Nel 2012 i lavoratori interinali nel distretto di Santa Croce erano 1.733 ma due anni dopo erano raddoppiati: 3.451. Il lavoro è cresciuto, dunque, ma in forma sempre più precaria se nel 2014 hanno trovato lavoro 4.650 nuovi addetti, ma solo 1.199 alle dipendenze delle aziende produttrici. I contratti di lavoro interinale sono di vario tipo, persino da 4 ore: «Un lavoratore viene assunto alle 8 e a mezzogiorno si ritrova già senza lavoro».
Le leggi hanno dato una mano alle imprese, però le infrazioni non mancano: a Santa Croce è «abituale lavorare ben oltre le ore di straordinario consentite, facendo ampio ricorso al pagamento al nero. Dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2014, nel distretto sono state ispezionate 185 aziende (concerie e terzisti) per un totale di 1.024 lavoratori. Di questi, 70% erano italiani e 30% immigrati. Sono state trovate irregolarità riguardanti 217 lavoratori, fra cui 116 totalmente in nero. Il 43% dei lavoratori in nero erano immigrati».
Ancora una volta il prezzo più alto lo pagano gli stranieri: i contratti interinali del 2014 sono fatti a loro per oltre la metà (e negli ultimi dieci anni gli stranieri residenti nei comuni del distretto sono triplicati, passando da 5.060 a 14.248). La crisi ha indebolito ulteriormente la loro posizione. C’è chi si ribella: Amadou, senegalese, si rifiuta di «fare cose che non fanno gli italiani». Ma Mario, operaio italiano interinale, ammette che «i senegalesi sono impiegati soprattutto dove si lavora in condizioni igieniche non ottimali: sul bagnato, con il rumore, in operazioni faticose». A far da teste di cuoio.
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