«Imbratto che fassi su’ fogli da chi impara a scrivere o disegnare», così recita il Vocabolario Toscano dell’Arte del Disegno di Filippo Baldinucci (Firenze, 1681) alla voce «Scarabocchio». Per quanto il concetto di scarabocchio per sua natura sfidi qualsiasi criterio di classificazione, questa definizione sembra essere valida ancora oggi e, nonostante le molteplici interpretazioni circa l’origine etimologica del termine, nell’immaginario collettivo esso evoca immediatamente disegni fatti male, senza arte e senza tecnica, così come parole mal scritte, illeggibili, indecifrabili, vere e proprie macchie d’inchiostro, prodotti insomma di una mano maldestra e non allenata, come quella di un bambino o di un dilettante alle prime armi.

Da qualche decennio si è iniziato a fare chiarezza sul ruolo del disegno nella formazione dell’individuo a partire dalla prima età moderna, ma non è necessario essere uno specialista di storia della pedagogia per riconoscere quanto la pratica del disegno fosse diffusa, anche al di fuori delle botteghe e delle accademie d’arte, ben prima che l’aumento della produzione della carta, a cavallo fra Quattro e Cinquecento, contribuisse alla sua progressiva democratizzazione. Coloro che frequentano abitualmente archivi e biblioteche e hanno una certa familiarità con la documentazione manoscritta, saranno sicuramente incappati, più di una volta, in quei piccoli disegni che popolano i margini delle pagine di registri contabili, atti notarili, lettere e raccolte di memorie, spesso frutto della noia del compilatore di turno.

Purtroppo, fino all’inizio del secolo scorso, tutta questa produzione, che si potrebbe definire amatoriale, non ha ricevuto le debite attenzioni e gran parte delle prove grafiche degli artisti dilettanti del passato è andata perduta per sempre. Fra i pochi esempi giunti fino ai giorni nostri figurano i fogli del futuro sovrano di Francia, Luigi XIII (Parigi, Bibliothèque nationale de France), alcuni dei quali ricordano quello raffigurato da Giovan Francesco Caroto in mano al suo celebre Fanciullo con disegno (Verona, Museo di Castelvecchio), una delle opere faro della mostra Gribouillage/Scarabocchio. Da Leonardo da Vinci a Cy Twombly (Villa Medici – Accademia di Francia a Roma, fino al 22 maggio).

Agostino Carracci, “Serie di teste caricate”, part., circa 1594, Torino, Musei Reali, Biblioteca Reale

Se si esclude l’interesse per gli scarabocchi infantili, riscoperti dalla critica solamente alla fine dell’Ottocento (grazie a L’arte dei bambini, un saggio pionieristico di Corrado Ricci del 1887), cui sono già state dedicate una nutrita bibliografia e alcune mostre recenti, pochi studi si sono concentrati sull’uso dello scarabocchio da parte degli artisti, ed esso rappresenta ancora oggi uno degli aspetti meno noti della pratica del disegno. Tuttavia, rispetto alla nozione baldinucciana di fine Seicento, è una definizione di scarabocchio decisamente più ampia a sostenere l’intera struttura concettuale su cui si regge la mostra curata da Francesca Alberti e Diane Bodart, con la collaborazione di Philippe-Alain Michaud.

L’esposizione, prevista su due sedi – dal 19 ottobre 2022 al 15 gennaio 2023 passerà infatti alle Beaux-Arts di Parigi, partner del progetto assieme all’Istituto centrale per la grafica di Roma – presenta una selezione di 150 opere (altrettante saranno presentate a Parigi), provenienti dalle principali istituzioni italiane ed europee. Attraverso sei sezioni tematiche, sono analizzate le diverse sfaccettature e implicazioni della nozione di scarabocchio, qui inteso non solo come elemento grafico sgraziato e goffo, dovuto all’inesperienza del suo artefice, ma come manifestazione della volontà dell’artista affermato di prescindere dalle imposizioni accademiche, quasi a voler recuperare la naturalezza e la spontaneità del gesto, domate da anni di pratica costante.

Prima che il processo di appropriazione operato dalle avanguardie lo ponesse al centro dell’opera d’arte, caratteristica principale dello scarabocchio era la sua collocazione tendenzialmente marginale. È per questo motivo che, nelle prime sale della mostra romana, dedicate prevalentemente all’arte del Rinascimento, a farla da padroni non sono gli affreschi strappati e i dipinti esposti, ma le sinopie, il retro e le riflettografie degli stessi, il verso dei disegni e delle matrici in rame delle incisioni, i bordi di pagine manoscritte o stampate che si riempiono di scarabocchi, schizzi e caricature. Solamente spostando lo sguardo dalle opere all’apparato di marginalia che le accompagnano si possono così indagare gli aspetti più profondi e sinceri del processo creativo, fatto certamente di lungo studio e duro lavoro, ma anche di momenti di pausa e di svago, durante i quali la mente dell’artista è libera di vagare.

«Disegni per gioco», così nel 1932 Gino Fogolari definiva, in un suo articolo apparso sulla rivista «Dedalo», gli «sgorbi (…) gettati giù per ischerzo» da Giovanni Bellini sul retro di alcune delle sue tavole, due delle quali – gli scomparti laterali del Trittico della Madonna con Bambino e Santi delle Gallerie dell’Accademia di Venezia – figurano tra le opere esposte in mostra. Di «componimento inculto» parlava invece Leonardo da Vinci per indicare quell’intrico di linee che partendo da un’apparente confusione gestuale dà vita a vere e proprie figure, grovigli che diventeranno la cifra stilistica di molti artisti dopo di lui (come Stefano della Bella, Ciro Ferri o Giovan Battista Foggini), mentre Vasari, nell’edizione giuntina della Vita di Michelangelo (1568), utilizza il termine ‘gofferie’, riferendosi a quei disegni del maestro che ricordano gli scarabocchi dei fanciulli.

Attraverso un dialogo incessante fra Rinascimento e Novecento – con qualche affondo sui secoli dal XVII al XIX, dalle caricature dei Carracci ai taccuini di Delacroix – la mostra ci accompagna alla scoperta del ruolo dello scarabocchio nella cultura occidentale, indagandone la presenza costante finanche sui muri dei luoghi di lavoro degli artisti, come nel caso delle porzioni di pareti staccate provenienti dalla bottega di Mino da Fiesole o dall’atelier di Alberto Giacometti. I disegni di maestri del passato, come Leonardo, Michelangelo, Pontormo e Tiziano, dialogano qui con le opere di coloro che, nel secolo scorso, fecero del gribouillage il proprio marchio di fabbrica, come lo stesso Giacometti o l’americano Cy Twombly.

La sezione nella quale si indaga il recupero dell’arte infantile da parte dell’avanguardia europea rappresenta la vera chiave di volta del percorso espositivo. Fra le opere selezionate, emerge in particolare L’Avant-garde se rend pas (Parigi, Centre Pompidou) del danese Asger Jorn, realizzata nel 1962 modificando una tela trovata in un mercatino delle pulci. Il dipinto, oltre a rispecchiare certamente il ruolo centrale occupato dalla spontaneità e dalla semplicità dell’infanzia nella cultura artistica novecentesca, sembra introdurre il tema che chiude la mostra: il graffito, gesto artistico tanto ancestrale quanto provocatorio attraverso il quale le subculture urbane rigenerarono dal basso l’arte del XX secolo. «Muraille blanche, papier de fou» recita un proverbio francese: quasi un invito a impossessarsi dello spazio murale, imbrattandolo. Ma dopotutto, ripensando ai disegnini lasciati sulle pagine di libri e documenti, o graffiti sulle pareti affrescate di palazzi e chiese nel corso dei secoli, verrebbe da chiedersi: scarabocchiare, per l’individuo, non rappresenta da sempre anche un modo per appropriarsi di un oggetto lasciando una traccia tangibile del proprio passaggio?