Si allarga il clamore per il rapporto di dieci pagine dell’ufficio etico dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che da 70 anni assiste oltre cinque milioni di profughi palestinesi, arrivato nei giorni scorsi nelle redazioni di alcuni media internazionali, tra i quali al Jazeera. Sotto la lente d’ingrandimento è finita una cerchia di esponenti di primo piano dell’agenzia, inclusi il commissario generale, lo svizzero Pierre Krahenbuhl, la sua vice Sandra Mitchell, il capo dello staff Hakam Shahwan e la consigliera Maria Mohammedi. I reati imputati a questa cerchia, dopo le testimonianze rese dal personale dell’Unrwa, sono quelli di abuso di potere, rappresaglie, nepotismo e soppressione del dissenso. Nei giorni scorsi Mitchell e Shahwan si sono dimessi, o meglio sono stati costretti a dare le dimissioni.

I fatti più gravi, stando al rapporto, sono avvenuti in concomitanza con la decisione annunciata nel 2018 dall’Amministrazione Trump prima di ridurre e poi di tagliare il contributo annuale statunitense all’agenzia (360 milioni di dollari, 1/3 del bilancio dell’Unrwa). Al Palazzo di Vetro l’imbarazzo è forte e Stephane Dujarric, portavoce di Antonio Guterres, ha assicurato che il segretario generale agirà rapidamente e con rigore. Da parte sua il commissario Krahenbuhl si difende. Parla di accuse formulate sulla base di illazioni ed opinioni e non di fatti concreti. Ma il suo destino è segnato.

La vicenda tuttavia genera qualche interrogativo “politico”. Se da un lato è giusto criticare o condannare la gestione dei vertici attuali dell’agenzia, dall’altro l’abuso di potere, il nepotismo, i colpi bassi tra dirigenti e via dicendo non sono una novità nell’Unrwa, così come in altre agenzie dell’Onu o in grandi istituzioni internazionali. Le ricche retribuzioni e gli incarichi di grande prestigio provocano una concorrenza spietata e scorrettezze ai piani alti di queste organizzazioni. Lo sanno tutti. Qualcuno perciò parla di «indagine ad orologeria» nel momento di debolezza più acuta dell’Unrwa, alle prese con la riduzione dei finanziamenti internazionali. Certo lo scandalo non dispiace al governo israeliano. Il premier Netanyahu – oppositore del diritto al ritorno nella terra d’origine (oggi Israele) per i palestinesi – chiede la fine dell’Unrwa e la naturalizzazione dei rifugiati nei Paesi dove vivono.

I palestinesi al contrario guardano con timore a una vicenda che potrebbe sfociare in una ulteriore riduzione dei fondi necessari per i principali servizi offerti (istruzione e sanità) dall’Unrwa. L’agenzia inoltre garantisce un lavoro a 30mila profughi. La Svizzera, ad esempio, ha già annunciato la sospensione delle donazioni all’Unrwa (22 milioni di dollari). Un anno fa Ignazio Cassis, il ministro degli esteri elvetico, affermò che «Fintanto che i palestinesi vivranno in campi profughi continueranno a sperare di rientrare in patria. Sostenendo l’Unrwa manteniamo vivo il conflitto».