Matteo Renzi arriva in Calabria e, com’è suo solito, gigioneggia, ammicca, scatta foto dal palco con lo smartphone. E soprattutto scalpita. Obama lo aspetta. Ha fretta di tornare a Roma e si vede lontano un miglio. Dribbla le domande dei cronisti in conferenza stampa. E taglia il suo comizio a poco più di un quarto d’ora. Un bignami del renzismo in salsa calabra. La manifestazione, sulla carta, si chiama «No ‘ndrangheta day» ma il premier fa fatica persino a nominarla direttamente dal palco, la parola ‘ndrangheta. E dire che siamo a Scalea, da poco commissariata per infiltrazioni mafiose.

Secondo la Dda il giorno in cui fu eletto, il sindaco uscente, Pasquale Basile (Pdl), fu portato in trionfo per le strade del paese a bordo di una cabriolet dal boss Pietro Valente. Festeggiarono a gamberoni e champagne e secondo gli inquirenti avviarono una stagione politico-mafiosa che aveva un solo obiettivo: spartirsi il business del megaporto, con il suo immenso molo di 400 metri, yachting club, centro commerciale e torre di controllo di 20 metri a fare ombra alla Torre Talao, simbolo di Scalea.

Il maestro di cerimonia della manifestazione renziana si chiama Ernesto Magorno, senatore, trascorsi socialisti, già sindaco di Diamante, e da poco segretario regionale del Pd. Alle primarie avrebbe vinto grazie a brogli, accusano i suoi avversari: «Un voto ogni ventisette secondi nei seggi di Diamante e Belvedere Marittimo. Magorno potrebbe farsi nominare direttore tecnico dalla Ferrari e la scuderia di Maranello potrebbe ingaggiare i presidenti di seggio e gli scrutatori di Diamante e Belvedere al posto dei meccanici che operano il pit-stop per i bolidi rossi». Polemiche. Le stesse che accompagnarono la nomina a presidente dell’Anci Calabria di un altro renziano doc, Peppino Vallone, sindaco di Crotone da quasi un decennio, che nel suo primo mandato pensò bene di scegliersi come capogruppo Pd un tale Pino Mercurio, da qualche mese in carcere a scontare una condanna definitiva a quattro anni e sei mesi per voto di scambio aggravato dal metodo mafioso. Insomma, il cotè renziano in Calabria non è certo adamantino. Ma tant’è, questo passa il convento.

Prima del comizio nella piazza del Municipio, Renzi si è recato nella scuola media «Ernesto Caloprese». Ad attenderlo un gruppo di signore imbufalite con in mano uno striscione: «Le mamme sono indignate, chiedeteci perché». Presto detto: scuole sporche, inagibili, vetuste. E mondezza ad altezza d’uomo. «È sparita solo dove è passato Renzi» grida un uomo. «È venuto a vedere la crisi da noi che l’abbiamo subita, ma era meglio se stava a casa» risponde un altro. Inferociti anche i lavoratori Lsu-Lpu con al collo alcuni cartelli: «Grazie alla spending review dal 31 marzo io e la mia famiglia non avremo un futuro». E poi la spina dolente della sanità. «Hanno chiuso tutti gli ospedali. Per una mammografia ci tocca andare a Lagonegro o in Sicilia» urla una donna. Insomma, la comparsata in Calabria del premier-viaggiatore non è un pranzo di gala. E quando una studentessa gli chiede «come faccio a pensare di costruirmi una famiglia qui in Calabria?», Renzi dal palco risponde: «Non dovete chiedere aiuti al governo ma rimboccarvi le maniche e pensarci voi».

Per il resto, sciorina il suo solito repertorio da attore consumato. Parla delle virtù “salvifiche” del decreto Poletti che perpetua i contratti a termine e ha un bel coraggio a farlo in una terra con il 40% di precariato. Dice che la criminalità «la sconfiggeremo con un esercito di maestri elementari». Nessun dettaglio su come ridurre il tasso di dispersione scolastica che in Calabria supera il 20%. Parole tante, soluzioni nessuna. Dedica cinque minuti a un incontro a quattr’occhi con il magistrato Nicola Gratteri, e poi fugge di corsa (letteralmente) verso la capitale. Unico assente, Peppe Scopelliti, presidente di regione e luogotenente alfaniano. A cui il Pd fa opposizione in Calabria. Ma che del Pd renziano è alleato imprescindibile a Roma.