«Sono felice soprattutto perché dopo tanti anni è stata fatta giustizia. Il mio sogno adesso è poter vivere tranquillamente, come una persona libera». H. ha poche parole da dire dopo lo sbarco in Italia, avvenuto attraversando in senso inverso una grande cornice con scritto «Passaggio vietato – No entrance». Sono circa le 12.30 nell’aeroporto romano di Fiumicino e finalmente ha potuto mettere la parola fine a una storia iniziata 11 anni fa, con un respingimento illegale in Libia. Oggi in cinque hanno fatto ingresso sul territorio nazionale per ordine di un giudice del tribunale civile di Roma.

«Una sentenza storica: per la prima volta si afferma che in caso di respingimento illegittimo si ha diritto a rientrare per chiedere asilo. Questo principio sarà applicabile a tutte le forme di respingimento occulto poste in essere dall’attuale governo e dai precedenti: negli aeroporti, nei porti dell’Adriatico o lungo i confini terrestri, come quello con la Slovenia», dice all’uscita del terminal 3 Salvatore Fachile, avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che insieme alla collega Cristina Cecchini ha seguito il procedimento.

LA STORIA

Tutto ha inizio all’alba del 20 giugno 2009, sulle coste libiche. Un gruppo di 89 persone, tra cui 3 bambini e almeno 9 donne, sale su un gommone diretto in Italia. Hanno poca acqua, pochi viveri e poca benzina. Il motore va presto in avaria e si blocca. Lanciano un Sos. Nel tardo pomeriggio del primo luglio sono raggiunti dalla nave Orione, della marina militare. Vedendo gli italiani si tranquillizzano e pensano che le loro disavventure stiano volgendo al termine. Le foto acquisite durante il procedimento mostrano alcune ore di grande tranquillità a bordo: le persone sorridono, i militari giocano con i bambini. Poi però succede qualcosa, forse un ordine partito da Roma. Quando i migranti, esausti, sono andati sottocoperta a riposare, la nave inverte la rotta. Qualcuno se ne accorge dalla posizione del sole. Sul ponte scoppia la tensione. «Per favore, non riportateci in Libia», supplicano. Ma i libici sono già vicini, così i militari ammanettano i migranti e li consegnano alle motovedette usando la forza. Un uomo viene portato in braccio perché ha perso conoscenza a causa delle percosse.

Gli 89 sono fatti sbarcare a Tripoli, identificati nuovamente dall’Unhcr e distribuiti nei centri di detenzione governativi: a Zwara, Misurata e Tajura. Qui subiscono violenze e torture per mesi che sembrano interminabili. Poi lentamente, uno a uno, vengono liberati. A questo punto le loro storie si separano. C’è chi sfida nuovamente il mare: alcuni hanno successo, arrivano in Europa e ottengono asilo in Svizzera, Germania e Svezia; altri non ce la fanno e perdono la vita in mezzo alle onde,

come il fratello di uno dei cinque atterrati oggi. In 16 scelgono una rotta che fino al 2010/2011 molti migranti, soprattutto etiopi ed eritrei, percorrevano: il deserto del Sinai. Vogliono arrivare in Europa via terra, seguendo il perimetro del Mediterraneo. Attraversano la Libia, superano l’Egitto, oltrepassano il deserto, ma rimangono bloccati in Israele. Qui le leggi contro i rifugiati, che nel linguaggio giuridico locale sono definiti «infiltrati», sono durissime. Ad attenderli trovano invisibilità, lavoro nero, detenzione, espulsioni verso altri paesi africani (per gli eritrei Ruanda e Uganda).

Sulle loro tracce, però, c’è Amnesty International. «Cercavamo le persone che avevano subito quel respingimento e grazie ad alcune associazioni di Israele che si battono per i diritti umani siamo riusciti a trovare chi aveva preso la rotta via terra», racconta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. L’organizzazione si rivolge così ad Asgi che, raccolti i primi elementi, decide di avviare un procedimento giuridico più audace della sola richiesta di risarcimento danni, già accordata ad esempio nel celebre caso Hirsi del febbraio 2012.

Un uomo privo di sensi viene consegnato ai libici durante il respingimento del 20/06/2009

LA SENTENZA

Il 28 novembre 2019, con la sentenza 22917, il giudice del tribunale civile di Roma dispone che ai 14 ricorrenti (di due nel frattempo si sono perse le tracce) sia riconosciuto un risarcimento danni pari a 15mila euro a testa. Inoltre, e qui sta la grande novità, ordina che sia rilasciato loro un visto d’ingresso in Italia affinché possano far valere il loro diritto a chiedere asilo violato da un comportamento illegittimo delle autorità. «L’enorme responsabilità del governo nei confronti di chi a causa di quel respingimento ha perso la vita, nei centri libici, nel deserto del Sinai o nel Mediterraneo, rimane. Almeno però questa sentenza apre un varco che speriamo valga per molti altri», afferma don Mussie Zerai. Anche il prete cattolico, nato ad Asmara e nominato nel 2015 al premio nobel per la pace in virtù del suo grande impegno a favore dei rifugiati, è a Fiumicino a dare il benvenuto ai cinque eritrei.

Il lieto fine arriva nonostante un complicato accertamento della verità, che ha dovuto superare ostacoli inaspettati. «L’Unhcr ha incontrato queste persone nei centri di detenzione libici dopo il respingimento. Non è riuscita a supportarle per farle uscire, ma soprattutto aveva informazioni e documenti che non ha prodotto in giudizio. Nemmeno quando c’è stato un ordine di esibizione da parte del magistrato romano. Per evitare di schierarsi contro lo stato italiano l’organizzazione si è appellata all’immunità internazionale di cui gode», ha affermato Fachile nell’improvvisata conferenza stampa in aeroporto.