Nell’epoca in cui il mondo dell’editoria e della letteratura, assecondando una funesta profezia di Guy Debord, tende sempre più alla spettacolarizzazione favorendo fenomeni di disarmante narcisismo, si pensa alla figura riservata di Camillo Sbarbaro come a un indispensabile contravveleno. L’«estroso fanciullo» di montaliana memoria si è infatti rapportato alla vita e alla scrittura con una dignità e una discrezione ammirevoli, contrapponendosi all’operato di tanti poeti e narratori di grido, costretti, oggi come allora, a sgomitare senza ritegno per emergere. Non fece nulla per distinguersi, arrivando nell’ultimo periodo di vita a privarsi finanche dei propri libri e degli articoli che lo riguardavano al fine di accogliere negli scaffali della sua biblioteca, ridotta a ricettacolo quasi francescano, soltanto gli erbari contenenti i licheni di cui era uno dei più rinomati studiosi internazionali (in omaggio a quella sua atipica attività di raccoglitore e classificatore le Nuovedizioni Vallecchi nel 1967 pubblicarono un volume illustrato intitolato Licheni, dall’emblematico sottotitolo Un campionario del mondo). Lo stesso autore dichiarava, con una sprovvedutezza d’antan, di non aver compreso le motivazioni esegetiche sottese agli studi dedicatigli da Carlo Bo e Giacinto Spagnoletti e non si peritava di rammentare anche le rare stroncature.

Un tale atteggiamento dimesso, quasi sconfinante nell’autolesionismo, ha indubbiamente penalizzato la diffusione della sua opera: solo negli ultimi decenni abbiamo assistito al proliferare di iniziative editoriali adeguate, di cui ci limitiamo a ricordare i «Quaderni sbarbariani» di San Marco dei Giustiniani e il «Meridiano» delle Poesie e prose, curato da Giampiero Costa nel 2021, anche se la pianta ha attecchito grazie all’impegno profuso in passato da Vanni Scheiwiller, Gina Lagorio e pochi altri. Dopo aver curato l’anno scorso per Ares

La poesia è un respiro che raccoglie le lettere inviate dal poeta a Giovanni Descalzo, Francesco De Nicola licenzia adesso, per i medesimi tipi, Camillo Sbarbaro Scrivere per vivere (pp. 168, € 15,00). Si tratta di una monografia che, attraverso un linguaggio lineare e misurato, dai chiari intenti divulgativi, ripercorre vita e opere di Sbarbaro, rimasto orfano della madre in tenera età e affidato alle cure della zia Benedetta, paragonata dall’autore alla protagonista di Un cuore semplice di Flaubert, racconto tradotto in seguito per Bompiani.

Ma è soprattutto la figura del padre a rappresentare un impareggiabile esempio di abnegazione nei confronti degli adorati figli Millo e Clelia. Due delle liriche più intense di Pianissimo, edito dalla Libreria della Voce nel 1914 e in versione rimaneggiata da Neri Pozza nel ’54, sono dedicate proprio al genitore, con esiti toccanti e originali contrastanti con i capisaldi poetici consacrati alla madre (si pensi a Ungaretti e Pasolini).

Si passano così in rassegna le vicissitudini di questo «monastico cultore della propria separatezza dal mondo», secondo la felice definizione di Enrico Testa, associandole a opere e temi (aridità esistenziale di taglio baudelairiano, dromomania, processo di mineralizzazione dell’individuo) che testimoniano una pervicace inquietudine, impostasi come multiforme vessillo a quella sua autenticità di taglio fin troppo disincantato. Il fatto stesso di tornare in maniera insistita, ossessiva, intorno alle prove di Pianissimo prima e di Trucioli poi (Sbarbaro, nonostante la divaricazione tra poesia e prosa, si considerava hominem unius libri), rimanda al suo «modo spoglio di esistere», privo di apparenti ambizioni che non riguardino l’atto di scrivere, appagandosi «di quella gioia in gola». Presentava «sé stesso come morto, pur galvanicamente percorso da scosse vitali», osserva ancora Testa. Adelchi Baratono, uno dei suoi maestri, nel presentare nel 1912 due poesie a Mario Novaro per «La Riviera Ligure», lo definiva privo di «alcuna smania letteraria: canta come l’usignolo, per cantare».

Attraverso i tredici capitoli del libro, De Nicola snoda esaurientemente l’itinerario biografico dell’autore ligure, dalla raccolta d’esordio Resine, stampata nel 1911 presso una tipografia savonese a spese degli amici, su iniziativa di Angelo Barile e oggigiorno diventata una rarità bibliografica, all’impiego in qualità di segretario presso lo Stabilimento Siderurgico di Savona (poi Ilva di Genova), dal ruolo di infermiere della Croce Rossa al grado di tenente dislocato al fronte, dalla frequentazione del mat Dino Campana ai contatti con vociani e lacerbiani (sarà Soffici a suggerire il titolo Pianissimo tra i molti papabili), dal controverso rapporto con Montale al rifiuto di aderire al fascismo, dalle lezioni private di latino e greco ai molteplici lavori di traduzione (Flaubert, Sofocle, Stendhal, Huysmans, Euripide, Maupassant, Balzac, Zola ecc.). Il lavoro andrebbe tuttavia supportato da una sia pur essenziale bibliografia. Nella prosa Montegrosso, presente nella versione mondadoriana di Trucioli del 1948, si legge un passo da interpretare in chiave autobiografica: «Così preme alla bocca del muto la parola necessaria».